martedì 18 gennaio 2011

La Città di Dio - VI parte

Riprendiamo la lettura dell'opera di Sant'Agostino nota come "La città di Dio". Il pensiero di Sant'Agostino oggi è rivolto alla tortura e alla morte terrena a cui sono stati sottoposti i cristiani. Evinciamo alcuni importanti principi: in primo luogo che subire torture per difendere la ricchezza è una cosa iniqua e stolta. Tutt'oggi apprendiamo di uomini che perdono la propria vita per difendere il denaro, la borsa o l'oro. Ma quanto vale la vita? Si può paragonare la propria vita all'oro, al denaro o alla borsa? Allora lasciamo che si prendano tutto perchè sarebbe iniquo accettar di morire non per testimonianza a Cristo, ma per testimonianza al dio denaro. Un altro principio che si evince è un principio ripetuto, oggigiorno, da grandi uomini coraggiosi come Paolo Borsellino (giudice vittima della mafia): ed è il principio che chi ha paura muore tutti i giorni mentre chi non ha paura muore una volta sola. Sant'Agostino arricchisce questo principio innestando il pensiero dell'eterno e del dopo-morte: ciò che dovrebbe preoccupare un buon cristiano non è il come sopraggiungerà la morte, ma dove finirà dopo la morte, se cioè nel Regno dei Cieli o nell'Inferno, luogo di pianto e stridore di denti. Oggi c'è una generalizzazione del Paradiso, un abuso della misericordia di Dio: ma non a tutti sarà concesso il Paradiso, ma solo a chi avrà compiuto la Volontà di Dio ed eseguito le opere della fede. Allora viviamo non con la paura di morire, ma con il timore del dopo, conformando la nostra condotta al volere di Dio, senza paura del mondo!:
 

10. 3. Alcuni buoni, anche cristiani, si dirà, sono stati sottoposti a torture perché consegnassero i propri beni ai nemici. Ma costoro non han voluto né consegnare né perdere il bene, di cui essi stessi erano buoni. Se poi han preferito essere torturati che consegnare l'iniquo mammona, non erano buoni. Individui che sopportavano pene tanto grandi per l'oro dovevano essere educati a sopportarne più gravi per il Cristo, per imparare ad amarlo perché arricchisce della felicità eterna chi soffre per lui. Non dovevano dunque amare l'oro e l'argento, poiché fu grande miseria soffrire per essi, sia che fossero occultati con la menzogna o palesati con la verità. Difatti non è stato perduto il Cristo rendendogli testimonianza fra i tormenti e si è conservato l'oro soltanto affermando di non averlo. Quindi erano forse più utili le torture che insegnavano ad amare un bene incorruttibile che quei beni i quali, per farsi amare, facevano torturare i loro possessori senza alcun vantaggio.

10. 4. Ma alcuni, si dice, anche se non avevano che consegnare, sono stati torturati perché non creduti. Ma anche costoro forse desideravano di avere e non erano poveri in virtù di una scelta santa. A loro si doveva far capire che non le ricchezze ma gli stessi desideri disordinati sono degni di tali sventure. Se poi non avevano riposto oro e argento per un impegno di vita più perfetto, non so se a qualcuno di loro avvenne di essere torturato perché si è creduto che l'avesse. Ma anche se è avvenuto, certamente chi, fra le torture testimoniava una santa povertà, testimoniava Cristo. Pertanto anche se non è riuscito a farsi credere dai nemici, tuttavia un testimone della santa povertà non poté essere torturato senza la ricompensa del cielo.

10. 5. [11.] Ma una fame prolungata, dicono, ha fatto morire anche molti cristiani. I buoni fedeli hanno volto anche questo fatto a proprio vantaggio sopportando con fede. La fame, come la malattia, ha sciolto dai mali di questa vita coloro che ha estinto e ha insegnato a vivere più morigeratamente e a digiunare più a lungo coloro che non ha estinto.

11. Ma, soggiungono, molti cristiani sono stati uccisi, molti sono stati sterminati da varie forme di morte per contagio. Se il fatto è penoso, è comunque comune a tutti quelli che sono stati generati alla vita sensibile. Questo so che nessuno è morto se non doveva morire una volta. Il termine della vita eguaglia tanto una lunga come una breve vita. Quello che non è più, non è né migliore né peggiore né più lungo né più breve. Che differenza fa con quale genere di morte si termina la vita se colui, per il quale è terminata, non è più soggetto a morire? Innumerevoli tipi di morte minacciano in un modo o nell'altro ciascun uomo nelle condizioni di ogni giorno della vita presente, finché è incerto quale di esse sopravverrà. Chiedo dunque se è peggio subirne una morendo o temerle tutte vivendo. E so bene che senza indugio si sceglie vivere a lungo sotto l'incubo di tante morti anziché non temerne più alcuna morendo una sola volta. Ma un discorso è ciò che l'istinto atterrito per debolezza rifugge ed un altro ciò che la riflessione diligentemente liberata dal timore dimostra come vero. Non si deve considerare cattiva morte quella che è preceduta da una buona vita. E non rende cattiva una morte se non ciò che segue alla morte. Coloro che necessariamente moriranno non devono preoccuparsi molto di ciò che avviene per farli morire ma del luogo dove saranno costretti ad andare dopo morti. I cristiani sanno che è stata di gran lunga migliore la morte del povero credente tra i cani che lo leccavano che quella del ricco miscredente nella porpora e nella batista 37. Dunque in che cosa quel ripugnante genere di morte ha danneggiato i morti vissuti bene?.

0 commenti:

Posta un commento