sabato 1 gennaio 2011

La Madre

Oggi, eccezionalmente, sospendiamo il consueto appuntamento con i Salmi, per meditare Maria, celebrata oggi dalla Chiesa Cattolica. Quanto segue è una riflessione di un grande scrittore italiano del Novecento, un uomo che ci ha lasciato più dieci anni fa, ma che ha lasciato un grande testamento di opere:


MADRE di Dio. È una professione di fede. Non mito o simbolo, invece uno dei misteri più ardui e accecanti. Che una donna, una creatura possa essere madre del suo Dio. Ricordiamo Dante? «Vergine madre, figlia del tuo figlio… ». Ma con Dante anche la vespertina comare che recita il Rosario diventa teologa. Dice la cosa abnorme, strepitosa in cui crediamo.

Dunque l’Immenso, 1′Onnipossidente ha voluto questo, una madre. Fra le nostre donne è venuto a sceglierla e a noi l’ha domandata. Allaccio queste due parole, Dio e madre: deìpara o teotochos, come il latino e il greco dei sapienti ce l’hanno astrusamente formulata. L’Essere astratto e invisibile, dilatato nell’infinità oltre tutti gli spazi, che si fa piccola virgola in Lei, da Lei si fa partorire. Ma allora Maria è genitrice anche di tutta quella cosmogonia che in Dio è gigantescamente implicata, nei poderosi e fantasiosi travagli della Genesi: quelle luci accese nel cielo, quei grandi cetacei, volatili e serpenti sparpagliati nelle acque e sulla terra, o il giardino dell’Eden coi quattro fiumi dai nomi squillanti che bagnano regioni ricche d’oro e di onice… La Vergine si è unita all’insondabile Mostro…

Qui la mente si smarrisce, ci arrestiamo, rinunciamo. E affermando Maria madre, ci giova allora rattrappirci nella mandorla terrestre che in noi evocano quelle tre parole – madre di Dio -. La notte di Betlemme. Abbiamo bendato questo schiacciante mistero in una soave, puerile poesia, una musica d’angeli e di cornamuse. E a Natale quell’enigma lo eludiamo con lo scambio di lieti regali e tavole imbandite.

Ma la divina maternità di Lei non si racchiude, come troppo spesso siamo portati a fare, in quella gentilezza d’immagini e di suoni. Madre è parola indissolubilmente di felicità e di spasimo. Per Lei la sofferenza del parto – dopo la profezia di Simeone che le annuncia la “spada” da cui il suo cuore sarà trapassato – durerà tutta la vita, fino alla croce e oltre. Certo insieme durerà in Lei – dilatata e arricchita dal suo cuore altissimo, capace come nessun altro anche di poesia – il gaudio dell’esser mamma. I delicati tripudi, le minuscole ricordanze colti dal bambino, dal fanciullo che è suo; gli orgogli del suo giovane profeta. Ma in cima a tutto, il giubilo, dilagante in ogni sua ora, di saper moltiplicata la propria maternità per miliardi di creature; d’ esser stata Lei a dare a tutti quei suoi figli il dono messianico della redenzione.

Per noi peccatori

Dopo queste apostrofi con cui la chiamiamo, che mai si vuole da Lei, di che cosa la incarichiamo? D’un’unica ed essenziale cosa: non è qui favore o miracolo. PREGA PER NOI. La si prega di pregare: perché Lei soltanto sa e può davvero pregare. Anzi, Lei infine è la preghiera. …

PER noi. Noi chi? Chi siamo noi? Lungo i circa mille anni da cui dura questa preghiera, è una sola la parola che definisce e compendia l’uomo: “peccatore”. È grande sentenza io trovo, anche se certo mortificante, che di fronte alla Madonna noi diamo a noi stessi un solo nome, una sola nuda e cruda qualifica. Giacché tutti, questo e null’altro siamo. Animal peccans, potremmo dire se volessimo inquadrare la nostra specie nelle tabelle dei naturalisti. Ce lo ha gridato Paolo, in quel passo della lettera ai Romani: « … io sono venduto come schiavo al peccato »; e se io «non quello che voglio faccio, ma quello che detesto (…) non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me ». E poi Agostino, nelle sue Confessioni, chiamandoci tutti « una massa dannata ».

Il peccato è dunque il nostro quotidiano obbrobrio. Esso è come una secrezione fatale, appena muovendoci non facciamo che spurgarlo, come la lumaca la sua bava. Anche i migliori di noi; anche nei momenti più innocenti e altruistici – riconosciamolo fuori d’ogni illusione e presunzione – non abbiamo altra anagrafe e identità che questa: peccatore. Siamo radicalmente, strutturalmente, questa trista malattia che spande dolore e scandalo.

Bisogna allora che qualcuno fuori di quel guasto (ed è Lei sola, 1`Immacolata Concezione”) venga a soccorrerci e lo faccia pregando suo Figlio per noi.

Adesso

Prega per noi, ma quando? Bella 1′Ave Maria. Bella e vorrei dire astuta. Con una formula, se ci pensiamo, di strategica lusinga, noi diciamo alla Madonna di pregare in due momenti.

NUNC, dicevamo in latino. ADESSO. Che cos’è questo “adesso” sul quale invochiamo la Vergine d’intervenire con la sua tutela? È l’ora che viviamo, è la stagione della storia che ci tocca planetariamente. Per noi le minacce di guerra atomica, il terrorismo, la fame, la droga e la corruzione, le celle dove si tortura, i tavoli attorno ai quali ambiguamente, col cuore torbido di Caino, si mercanteggia la pace::: C’è una grandiosa e una cristiana concretezza, un accettare e affrontare la storia in questo dirle “adesso”. Con tale avverbio , Primo Mazzolari intitolò il suo giornale battagliero ed evangelico. Ma c’è poi il nostro adesso interiore e particolare. Vorrei che nel ripercorrere l’Ave Maria penetrassimo con tesa consapevolezza in questa parola. Pensando, ciascuno nell’intima nicchia dei suoi giorni, qual è, come è il proprio “adesso”. Carico di quali urgenze, pene e speranze. E affidare alla Madonna quel breve, nebbioso mistero che è a noi stessi il nostro “nunc” perché lo sorregga e lo protegga. Lungo quest’anno che si svolge, e per quanti altri ce ne siano riservati.

L’ora ultima

Sia quindi Lei la madre orante su tutte le nostre ore. Ma più e soprattutto su quella che conterrà il nostro estremo respiro, il nostro staccarci dalla terra. Giacché la parola ultima, la clausola finale dell’Ave Maria è questa, e certo il passo più importante: NELL’ORA DELLA NOSTRA MORTE.

Pensiamo noi abbastanza a quell’ora? Ci crediamo davvero – avvolti dal nostro pulsante corpo e dalle mille frenesie di cui son fatti i nostri giorni – che in un punto la nostra vita finirà? La liturgia mette allora nella più quotidiana e rimasticata delle preghiere questo pungente “memento mori`; e la metapsicologia arditamente accetta di speculare anche dentro quell`ora”. Sarà un frangente ignoto ma – giova sperarlo – soccorso da imprevedibili virtù, forse addirittura da metamorfosi stupefacenti che ci soccorreranno. «Noi non sappiamo » dice Gianfranco Ravasi «che cosa sarà in quel momento, quale misterioso occhio si aprirà per noi». E un francese ha sostenuto che in quel passo ultimo, quando l’uomo ha una visione di Dio diversa perché è ormai solo un esile lembo che lo separa dall’infinito, egli può, con una luce nuova e più ricca, fare la sua scelta per Dio o per il suo contrario: giacché il Padre ci dà fino all’ultimo una grazia segreta, e proprio attraverso di essa l’uomo può fare la sua perfetta orazione.

lo penso allora che quella “grazia segreta” sarà immancabilmente Lei, la Vergine, a promuoverla, memore e attenta a quella nostra richiesta che le abbiamo disseminato in grembo – più spesso distratti e spensierati – a chiusa di tutte le nostre Ave Marie. Ciò che giova chiederle per quell’ora non è solo una indulgenziale preghiera di Lei al giusto Giudice; ma la capacità nostra di fare noi stessi e per noi, nell’eco della sua, la nostra “perfetta preghiera”.

Ma lasciamo a Maria i fluidi e le fantasie con cui “santificare” la nostra morte. A noi basti la certezza che in quell’ora sul nostro guanciale, sul nostro affannato respiro sgorgherà quell’ineffabile cosa di cui la Madre nostra è colma e prodiga: la sua tenerezza. Grazie a tale promessa, è già privilegio felice sapere che quell’ora non dev’essere più guardata come il terribilium terribilissimum. dopo che Cristo è morto sulla croce ed è risuscitato, dopo che Maria stessa ha partecipato di questa sorte umana ed è stata assunta al cielo.

Così siamo giunti al fondo di quella che, dopo il Padre nostro, è la suprema preghiera cristiana. Grande perché è dell’angelo, è della grazia, è della benedizione. Ed è insieme del peccatore, sì che tutti ci conferma e ci umilia nella spoglia identità di colpevoli; ma è pure l’occasione in cui, attraverso la maternità amorosa di Maria, anche il peggiore di noi si sente garantito nel suo riscatto. Ma ecco che, nel congedarmi, proprio la mia esperienza di orante mariano mi ricorda che tutta questa puntigliosa e però inadeguata “analisi” non è in fondo necessaria.

C’è voglio dire un modo ancora, empirico e disancorato insieme, d’impadronirci dell’Ave Maria e tesoreggiarla. Non parlo qui del labile sussurro delle pie donne cui accennavo all’inizio. Mi sono accorto e ve lo confido che, a volte, nel dire questa preghiera io perdo volontariamente di vista ogni teologia e il senso dei passaggi che mi sono affannato a ripercorrere. Allora, sbrigliato da quei significati e dalla mia stessa anima, io mi affido alle quaranta parole. Salgo sull’Ave Maria come su una puledra alata. E sento vicini a me, in quel volare oltre le nuvole, altri ispirati cavalieri di Lei. Dante e Gounod, Luini e Petrarca, Schubert e Rilke, Simone Martini e Hopkins, Verdi e Dalì; e tanti ancora, che “pregarono” la Vergine nell’estasi delle loro strofe, delle loro melodie e dei loro colori.

Forse non è un vero pregare. Pure io mi accorgo che anche in quel trasognato inseguirla, 1′insipidità della mia acqua si trasforma in vino. Come a Cana, quando Lei disse ai servi: « Fate quello che Lui vi dirà ».

LUIGI SANTUCCI

(testo preso da: Maria ieri e oggi, Edizioni Paoline, 1986, pp.62-71)

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