martedì 1 febbraio 2011

La Città di Dio - VIII parte

Riprendiamo la lettura dell'opera di Sant'Agostino nota come "La città di Dio". Oggi Sant'Agostino confuta anche chi pensa che non vi sia un Dio che si prende cura dei cristiani visto che quest'ultimi sono stati portati via in schiavitù. Sant'Agostino cita i diversi momenti della Bibbia dove gli ebrei risultano prigionieri in terra straniera: nonostante questa condizione di prigionia, gli ebrei vivevano il conforto del Signore Dio. E chi può dimenticarsi di Giona, assistito da Dio mentre si trovava all'interno del ventre di una balena. Sant'Agostino prende ad esempio anche un romano di nome Regolo, la cui vicenda è esemplificativa di come si atteggino i cultori di dei pagani...: 

14. Ma, dicono, molti cristiani sono stati condotti in schiavitù. Sarebbe veramente una grande infelicità se son riusciti a condurli dove non han trovato il loro Dio. Nella sacra Scrittura ci sono parole di grande conforto anche per tale sciagura. Erano prigionieri i tre fanciulli, lo era Daniele, lo erano altri profeti 54. Ma non mancò loro Dio consolatore. Dunque non ha abbandonato i suoi fedeli posti sotto il dominio di un popolo che sebbene barbaro era di uomini, come non ha abbandonato un suo profeta nel ventre di una bestia 55. I nostri oppositori preferiscono dileggiare anziché ammettere questi fatti. Eppure ammettono dalla loro letteratura che Arione di Metimna, bravissimo citarista, gettato da una nave, fu accolto sul dorso di un delfino e trasportato a terra 56. Però l'episodio di Giona, dicono, è più incredibile. Certo che è più incredibile, perché più meraviglioso e più meraviglioso perché opera di un potere maggiore.

15. 1. Hanno tuttavia anche essi fra i loro uomini illustri un esempio insigne in relazione alla prigionia sopportata anche volontariamente per motivi religiosi. Marco Regolo, condottiero del popolo romano, fu prigioniero presso i Cartaginesi. Costoro stimavano più vantaggioso, che dai Romani fossero restituiti i propri prigionieri anziché tenere prigionieri i loro. Per conseguire l'intento mandarono a Roma con i propri ambasciatori proprio Regolo dopo averlo fatto giurare che sarebbe tornato a Cartagine se non avesse ottenuto ciò che volevano 57. Egli andò ma in senato sostenne la tesi contraria perché pensava che non c'era tornaconto per lo Stato romano scambiare i prigionieri. Dopo tale discorso dai concittadini non fu costretto a tornare dai nemici. Lo fece spontaneamente perché aveva giurato. Ed essi lo ammazzarono con un supplizio squisitamente atroce. Chiusolo in una stretta cassa di legno, in cui era costretto a stare in piedi, e piantati dei chiodi acuminati nella cassa perché non sì sorreggesse in alcuna parte senza sofferenze terribili, lo fecero morire anche privandolo del sonno. Giustamente dunque gli scrittori lodano una virtù superiore a una sorte tanto triste 58. Ed egli aveva giurato per gli dèi. Eppure i nostri accusatori ritengono che siano inflitte al genere umano queste calamità perché è stato proibito il loro culto. Ma se essi, che venivano onorati proprio per rendere prospera la vita, hanno voluto o permesso che fossero irrogate a Regolo che giurò il vero tali pene, che cosa più gravemente irati avrebbero fatto se avesse spergiurato? Ma piuttosto perché non dovrei risolvere io stesso il mio dilemma? Egli onorò gli dèi così da non rimanere in patria per fedeltà al giuramento e da non accettare neanche il dubbio di andare altrove e non tornare dai suoi spietati nemici. Se lo stimava vantaggioso per questa vita, dal fatto che ne conseguì una fine così orribile, senza dubbio sbagliava i suoi calcoli. Col suo esempio egli insegnò che gli dèi non aiutano affatto i propri cultori ai fini della felicità temporale, giacché egli fedele nel loro culto fu vinto e fatto prigioniero; e poiché non volle comportarsi diversamente da come aveva loro giurato, morì dopo esser stato torturato con un inaudito e veramente atroce genere di supplizio. Se poi il culto degli dèi procura come ricompensa la felicità dopo questa vita, perché insultano alla civiltà cristiana dicendo che a Roma è capitata quella sventura perché ha cessato di onorare i propri dèi? Anche onorandoli con grande zelo poteva avere la mala sorte che ebbe Regolo. Ma forse contro una verità tanto chiara si resiste con l'irragionevolezza di un accecamento che sbalordisce. Sosterrebbero appunto che tutta la città onorando gli dèi non poteva avere una triste sorte ma che un solo individuo lo poteva. Il potere degli dèi, cioè, sarebbe adatto a proteggere i molti anziché i singoli. Ma la moltitudine è composta di singoli.

15. 2. Se poi dicono che Marco Regolo, anche in prigionia e nelle sofferenze fisiche, poté sentirsi felice a causa di un valore spirituale, si cerchi allora questo valore ideale per cui anche la cittadinanza possa sentirsi felice. Non è vero infatti che da un oggetto è felice la città, da un altro l'individuo, giacché la città non è altro che una moltitudine unanime di individui. Per questo frattanto non metto in discussione quale valore fu in Regolo. Basta per adesso che siano costretti da questo altissimo esempio ad ammettere che gli dèi non si devono onorare per i beni fisici e per le cose che accadono all'uomo dal di fuori. Egli infatti preferì esser privo di tutte queste cose anziché offendere gli dèi, nel cui nome aveva giurato. Ma come dovremmo comportarci con individui che si vantano di avere un tale concittadino e poi temono di avere la città che gli rassomigli? E se non temono questo, ammettano che alla città che, come lui, onorava devotamente gli dèi è potuto accadere un fatto quale accadde a Regolo e non insultino alla civiltà cristiana. Ma la questione è sorta in relazione ai cristiani che furono fatti prigionieri. E allora coloro che da questo fatto oltraggiano con sfrontata sconsideratezza alla religione della vera salvezza, riflettano sul seguente motivo e stiano zitti. Non fu di disonore ai loro dèi che uno scrupoloso loro cultore, nel conservare la fedeltà loro dovuta, rimanesse privo della patria, poiché altra non ne aveva, ed essendo prigioniero fosse ucciso in casa dei nemici attraverso una morte prolungata con un supplizio d'inaudita crudeltà. A più forte ragione dunque non si deve accusare il nome cristiano per la prigionia dei suoi aderenti i quali, aspettando con fede veritiera la patria celeste, sanno di essere esuli anche se sono a casa loro.

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