martedì 29 marzo 2011

La Città di Dio - XI parte

Riprendiamo la lettura dell'opera di Sant'Agostino nota come "La città di Dio". Il pensiero odierno si sofferma sulla Città di Dio, ma non solo poiché vediamo affrontare anche il tema degli dei che non fanno altro che desiderare spettacoli osceni, giungendo così a pervertire i cuori degli esseri umani (senza contare che tali spettacoli perversi e osceni continuarono anche dopo la sventura che non comportò dunque alcuna conversione o cambiamento). Ma il pensiero agostiniano va anche oltre e chiama a riflettere, in quest'ultima parte del primo Libro dell'opera, sulla commischianza tra la città di Roma e la Città di Cristo Re:

32. Comunque sappiate voi che non lo sapete e riflettete voi che fingete di non sapere e mormorate contro il liberatore da tali padroni. Le rappresentazioni teatrali, gli spettacoli immorali e la frivola licenza sono stati istituiti a Roma non dai vizi degli uomini ma per comando dei vostri dèi. Sarebbe più tollerabile se tributaste onori divini a Scipione che venerare simili dèi. Essi non erano migliori del proprio pontefice. Ed ora, se la vostra intelligenza ubriaca di errori per tanto tempo tracannati vi consente di pensare qualche cosa di sobrio, riflettete. Gli dèi, per sedare il contagio fisico, ordinavano che fossero loro apprestate delle rappresentazioni teatrali 93; il vostro pontefice, per evitare il contagio spirituale, proibiva che fosse costruito il teatro stesso. Se per un residuo di luce mentale ritenete lo spirito superiore al corpo, scegliete chi dovreste venerare. E il contagio non cessò perché in un popolo dedito alla guerra e abituato soltanto agli spettacoli del circo si insinuò la raffinata pazzia degli spettacoli del teatro, ma l'astuzia degli spiriti innominabili, prevedendo che il contagio sarebbe cessato a tempo dovuto, si preoccupò, approfittando della circostanza, di cagionarne non nei corpi ma nei costumi uno molto più grave, di cui particolarmente si compiace. Esso ha accecato la coscienza dei poveretti con tenebre tanto grandi e li ha bruttati di tanto obbrobrio che anche adesso (e forse sarà incredibile se si saprà dai posteri), dopo il saccheggio di Roma, coloro che furono posseduti da tale contagio e poterono fuggendo di lì arrivare a Cartagine, tutti i giorni hanno gareggiato nel far tifo per gli attori nei teatri.

33. O menti prive di mente! Questo è non un errore ma una grande pazzia. Mentre, come abbiamo saputo, i popoli di Oriente piangevano la vostra rovina e grandissime città nei più lontani paesi facevano pubblico lutto di compianto, voi cercavate, entravate e riempivate i teatri e facevate cose molto più insensate di prima. Il vostro grande Scipione temeva per voi proprio questo ignominioso contagio delle coscienze, questa rovina della moralità e dell'onestà, quando proibiva la costruzione dei teatri, quando si accorgeva che potevate facilmente essere rovinati dalla prosperità, quando non voleva che foste sicuri dalla paura del nemico. Pensava che non fosse prospero quello Stato in cui le mura rimangono, i costumi crollano. Ma su di voi hanno avuto più influsso ciò che gli empi demoni hanno insinuato di quel che gli individui saggi hanno auspicato. Da ciò dipende che non volete essere incolpati dei mali da voi commessi e incolpate la civiltà cristiana dei mali che subite. Nel vostro benessere voi non cercate lo Stato in pace ma la dissolutezza senza punizione, giacché corrotti nella prosperità non siete riusciti a correggervi nell'avversità. Voleva il grande Scipione che foste impauriti dal nemico perché non vi perdeste nella dissolutezza ma voi, calpestati dal nemico, non avete represso la dissolutezza, avete perduto l'utilità della sventura, siete diventati estremamente infelici e siete rimasti pessimi.

Scampo inusitato nella strage.
34. Tuttavia è dono di Dio che siate ancora in vita. Egli vi ammonisce col perdonarvi affinché vi correggiate col pentirvi e vi ha concesso anche, sebbene ingrati, di sfuggire alle schiere nemiche o perché ritenuti suoi servi o perché rifugiati nelle chiese dei suoi martiri. Si tramanda che Romolo e Remo avessero stabilito un luogo inviolabile. Chi vi si rifugiava era ritenuto immune da reato 94. Cercavano così di aumentare il numero degli abitanti della città da costruire. Fu anticipato un esempio meraviglioso in onore del Cristo. I saccheggiatori di Roma hanno deciso la stessa cosa che avevano deciso prima i suoi fondatori. E che c'è di straordinario se i fondatori per accrescere il piccolo numero dei propri concittadini fecero ciò che hanno fatto i saccheggiatori per conservare il gran numero dei propri nemici?

35. La redenta famiglia di Cristo Signore e l'esule città di Cristo Re adduca contro i propri nemici questi argomenti e, se lo potrà, altri in maggior numero e più convenienti. Ricordi però che anche fra i nemici sono nascosti dei futuri concittadini. Non ritenga anche con loro che sia privo di risultato il fatto che, prima di giungere a loro come compagni nella fede, li deve sopportare come avversari. Allo stesso modo sono del loro numero coloro che la città di Dio accoglie in sé, finché è esule in questo mondo, perché uniti nella partecipazione ai sacramenti ma che non saranno con lei nell'eterna eredità dei santi. Di essi alcuni sono celati, altri manifesti. E questi ultimi non si fanno scrupolo di mormorare assieme ai nemici contro Dio, di cui hanno in fronte il sacramento, riempiendo ora i teatri con loro, ora le chiese con noi. Però si deve molto meno disperare della correzione di alcuni, anche se agiscono così, se individui predestinati ad essere amici si celano, ancora sconosciuti a se stessi, fra i nostri avversari più palesi. Infatti le due città non sono riconoscibili in questo fluire dei tempi e sono fra di loro commischiate, fino a che non siano separate dall'ultimo giudizio. Sul loro inizio, svolgimento e fini convenienti tratterò con l'aiuto di Dio ciò che ritengo opportuno per la gloria della città di Dio che splenderà più chiaramente nel contrasto con i caratteri dell'altra.

36. Ma devo dire ancora qualche cosa in risposta a coloro che attribuiscono le disfatte dello Stato romano alla nostra religione perché è stato proibito il culto pubblico ai loro dèi. Devo citare le molte e gravi sventure che verranno in mente o che sembreranno sufficienti, capitate alla città e alle province appartenenti al suo impero prima che il loro culto fosse proibito. Le addosserebbero tutte a noi se anche ad esse fosse giunta la nostra religione e impedisse loro allo stesso modo un culto sacrilego. Devo poi dimostrare quali loro istituzioni e per qual motivo Dio si è degnato favorire per accrescere il loro dominio, giacché tutti i regni sono in suo potere; inoltre che quelli che considerano dèi non li hanno aiutati affatto, anzi danneggiati con l'inganno e l'errore. Infine si parlerà contro coloro che, quantunque confutati e convenuti con argomenti convincenti, si affannano a dimostrare che gli dèi non si devono onorare per il benessere della vita presente ma per quello che verrà dopo la morte. E questo, salvo errore, sarà un argomento più faticoso e degno di una più sottile discussione. In essa appunto si argomenterà contro filosofi, non di qualunque risma, ma che presso i Romani sono illustri per altissima fama e la pensano come noi in molte cose relative all'immortalità dell'anima, alla dottrina che Dio ha creato il mondo e alla provvidenza con cui ordina il mondo che ha creato. Ma poiché anche essi si devono ribattere nelle teorie in cui non la pensano come noi, non devo mancare a questo dovere. Dimostrate, cioè, false le obiezioni dei pagani, secondo le forze che Dio mi darà, difenderò la città di Dio, la vera religione e il culto di Dio, perché in lui solo è riposta veramente la felicità eterna. Questa dunque è la fine del primo volume. Riprenderò all'inizio del secondo libro gli argomenti predisposti per il seguito.


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