martedì 19 aprile 2011

La Città di Dio - XIV parte

Riprendiamo la lettura dell'opera di Sant'Agostino nota come "La città di Dio". Il discorso è ancora incentrato sul rapporto tra gli dei, la moralità e i riti osceni che venivano proposti; ma oggi in questo rapporto entra anche l'elemento della filosofia greco-romana: 

7. Ci citeranno forse le scuole e dispute dei filosofi? Prima di tutto non sono romane ma greche. E se ormai sono romane perché la Grecia è divenuta provincia romana, non sono precetti degli dèi ma scoperte degli uomini. Essi comunque, dotati di molto acume, hanno tentato di scoprire col pensiero i segreti della natura, i precetti e divieti nella morale, la conclusione che si trae con determinato nesso logico nelle regole del ragionamento, la deduzione legittima e perfino il sofisma. E alcuni di essi, perché aiutati da Dio, hanno scoperto grandi verità ma in quanto umanamente limitati hanno insegnato errori, soprattutto perché giustamente la divina provvidenza resisteva alla loro altezzosità. Così anche dal raffronto con essi mostrava la via della pietà che dalla terrenità si leva verso l'alto. Si avrà in seguito con l'aiuto di Dio vero Signore l'opportunità di discutere in profondità sull'argomento. Tuttavia se i filosofi hanno scoperto, quanto bastava, i principi dell'azione morale e del conseguimento della felicità, a loro giustamente si sarebbero dovuti attribuire onori divini. È meglio e più onesto che in un tempio a Platone siano letti i suoi libri che nei templi dei demoni siano evirati i sacerdoti di Cibele, siano offerti in voto gli eunuchi, siano mutilati certi pazzi e tutto ciò che di crudele e sconcio o di sconciamente crudele o crudelmente sconcio nei riti di tali divinità si suole celebrare. Era preferibile che per educare socialmente la gioventù si recitassero in pubblico le leggi degli dèi che lodare inutilmente le leggi e istituti degli antenati. Tutti gli adoratori di tali divinità, appena la passione, pitturata, come dice Persio, di ardente veleno 10 li abbia stimolati, pensano di preferenza alle azioni di Giove che agli insegnamenti di Platone o alle censure di Catone. E per questo in Terenzio un libertino guarda una pittura alla parete, nella quale era dipinto il modo con cui Giove, dicono, in quei tempi infuse in grembo a Danae una pioggia d'oro 11. Da un essere tanto autorevole deriva la difesa della propria dissolutezza giacché si vanta di imitare in essa il dio, e quale dio, dice, proprio quello che scuote col tuono i templi del cielo. Ed io, omuccio, non lo farò? Ma l'ho fatto e con soddisfazione 12.

8. Queste cose, obiettano, non sono presentate nei riti degli dèi ma nelle composizioni drammatiche dei poeti. Non intendo dire che i riti siano più osceni delle rappresentazioni teatrali. Dico, come afferma irrefutabilmente la storia contro chi nega, che non sono stati i Romani per un grossolano omaggio ai misteri dei loro dèi a introdurre gli spettacoli in cui dominavano le favole poetiche. Gli stessi dèi han voluto che fossero eseguiti con solennità e dedicati in loro onore ordinandoli imperiosamente e quasi estorcendoli. L'ho detto sommariamente nel primo libro 13. Infatti gli spettacoli furono istituiti a Roma la prima volta d'autorità dei pontefici durante l'infuriare di un'epidemia 14. E chi nella propria condotta non preferisce seguire le parole che si recitano spesso in spettacoli istituiti per autorità del dio, anziché quelle che sono scritte in leggi promulgate dalla giurisprudenza dell'uomo? Se i poeti hanno falsamente indicato Giove come adultero, dèi che fossero casti avrebbero dovuto vendicarsi per ira perché fu rappresentato mediante spettacoli umani un delitto così grosso e non perché fu passato sotto silenzio. E questi sono gli aspetti più sopportabili delle rappresentazioni teatrali, cioè della commedia e della tragedia, ossia della favola poetica da eseguirsi negli spettacoli con grande indecenza dei fatti ma almeno non composte, come molte altre, con parole oscene. Eppure i fanciulli sono costretti dagli anziani a leggerle e impararle negli studi che si dicono umanistici.

9. Che cosa abbiano pensato del fatto i vecchi Romani ce lo attesta Cicerone nell'opera Sullo Stato in cui Scipione, uno dei dialoganti, dice: Le commedie non avrebbero potuto presentare nei teatri la propria infamia se non l'avesse tollerato il modo di vivere 15. I Greci antichi si attennero a una certa coerenza con la cattiva reputazione che ebbero, giacché da loro fu concesso per legge che la commedia manifestasse espressamente il tema e l'individuo cui lo applicava. Perciò, come dice Scipione Africano in quell'opera, chi non ha raggiunto, anzi chi non ha insultato, chi ha risparmiato? E vada pure se ha insultato cittadini disonesti, sediziosi nell'amministrazione, un Cleone, un Cleofonte, un Iperbolo. Ammettiamolo, sebbene cittadini di quella risma è meglio che siano bollati dal censore che da un poeta. Ma che Pericle, dopo essere stato a capo della città in pace e in guerra con grande autorevolezza per molti anni, fosse oltraggiato con composizioni poetiche e che queste poi fossero eseguite in teatro fu meno conveniente che se il nostro Plauto o Nevio avessero detto male di Publio e Gneo Scipione o Cecilio di Marco Catone. E poco dopo: Invece le nostre dodici tavole, nello stabilire le pochissime pene capitali, fra di esse hanno ritenuto di dover porre anche questa: "Per chi satireggia o compone un carme che porta disonore e danno all'altro". Giustissimo. Dobbiamo sottoporre la nostra condotta ai giudizi dei magistrati e agli accertamenti della legge e non al capriccio dei poeti e non ascoltare un'accusa se non in base a una legge per cui si possa rispondere e difenderci in giudizio 16. Ho pensato di citare testualmente queste parole dal quarto libro Sullo Stato di Cicerone con qualche omissione o leggera variante allo scopo di una più facile intelligenza. Il testo è molto pertinente all'argomento che mi accingo a trattare se ne sarò capace. Aggiunge altre parole e tira la conclusione di questo passo per dimostrare che ai vecchi Romani dispiaceva che in teatro si lodasse o insultasse un individuo, mentre era vivo. Ma come ho detto, i Greci, sia pur con minor rispetto e tuttavia con maggior coerenza, stabilirono che era lecito. Essi pensavano che agli dèi fossero gradite nelle rappresentazioni teatrali le azioni disonorevoli non solo degli uomini ma anche degli stessi dèi, tanto se erano inventate dai poeti che se le loro reali azioni scandalose erano ricordate e rappresentate in teatro e sembravano degne ai loro adoratori soltanto, speriamo, di riso e non anche di imitazione. Sembrò troppo altezzoso risparmiare la onorabilità dei primi della città e dei cittadini, quando la divinità non voleva che si risparmiasse la propria.

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