martedì 24 maggio 2011

La Città di Dio - XIX parte

Riprendiamo la lettura dell'opera di Sant'Agostino nota come "La città di Dio". Il pensiero agostiniano è fermo a denunciare il modello perverso della società romana, denunciato dai suoi stessi autori e poeti. Oggi, dopo aver letto il pensiero di Sallustio, Sant'Agostino richiama persino la descrizione effettuata dal celebre Cicerone che già da tempo apprima aveva segnalato la decadenza morale di Roma: 

20. Ma simili adoratori e amatori di questi dèi, che si vantano anche di imitare nei delitti e azioni infami, non si preoccupano affatto che la società sia corrotta e depravata. Basta che si regga, dicono, basta che prosperi colma di ricchezze, gloriosa delle vittorie ovvero, che è preferibile, tranquilla nella pace. E a noi che ce ne importa?, dicono. Anzi ci riguarda piuttosto se aumentano sempre le ricchezze che sopperiscono agli sperperi continui e per cui il potente può asservirsi i deboli. I poveri si inchinino ai ricchi per avere un pane e per godere della loro protezione in una supina inoperosità; i ricchi si approfittino dei poveri per le clientele e in ossequio al proprio orgoglio. I cittadini acclamino non coloro che curano i loro interessi ma coloro che favoriscono i piaceri. Non si comandino cose difficili, non sia proibita la disonestà. I governanti non badino se i sudditi sono buoni ma se sono soggetti. Le province obbediscano ai governanti non come a difensori della moralità ma come a dominatori dello Stato e garanti dei godimenti e non li onorino con sincerità, ma li temano da servi sleali. Si noti nelle leggi piuttosto il danno che si apporta alla vigna altrui che alla propria vita morale. Sia condotto in giudizio soltanto chi ha infastidito o danneggiato la roba d'altri, la casa, la salute o un terzo non consenziente, ma per il resto si faccia pure dei suoi, con i suoi o con altri consenzienti ciò che piace. Ci siano in abbondanza pubbliche prostitute o per tutti coloro che ne vogliono usare ma principalmente per quelli che non si possono permettere di averne delle proprie. Si costruiscano case spaziose e sontuose, si tengano spesso splendidi banchetti, in cui, secondo il piacere e le possibilità di ciascuno, di giorno e di notte si scherzi, si beva, si vomiti, si marcisca. Strepitino da ogni parte i ballabili, i teatri ribollano di grida di gioia malsana e di ogni tipo di piacere crudele e depravante. Sia considerato pubblico nemico colui al quale questo benessere non va a genio. La massa sia libera di non far parlare, di esiliare, di ammazzare l'individuo che tenti di riformare o abolire questo benessere. Siano considerati veri dèi coloro che hanno concesso ai cittadini di raggiungerlo e una volta raggiunto di conservarlo. Siano adorati come vorranno, chiedano gli spettacoli che vorranno e che possano avere assieme o mediante i loro adoratori; concedano soltanto che per tale benessere non si debba temer nulla dal nemico, dalla peste, dalla sventura. Chi, se è sano di mente, potrà paragonare questa società civile non dirò all'impero romano ma alla casa di Sardanapalo? Costui, re nei tempi andati, fu così dedito ai piaceri da far scrivere nel suo sarcofago che da morto aveva soltanto le cose che la sua libidine aveva delibato mentre era vivo 40. E se i Romani di oggi lo avessero per re che consente loro i piaceri e non frastorna con la severità alcuno dall'averli, a lui più volentieri dedicherebbero il tempio e il flamine che i Romani di una volta dedicarono a Romolo. Politeismo e giustizia sociale (21-29)

21. 1. Ma forse si disprezza chi ha giudicato la società romana eticamente molto depravata e costoro non si preoccupano che sia coperta dalla piaga nauseante di costumi moralmente pervertiti, ma soltanto che si conservi e rimanga. Sappiano allora che non solo è divenuta moralmente molto depravata come narra Sallustio, ma che era già finita fin d'allora e che non esisteva più una società civile come sostiene Cicerone. Egli sulla società fa parlare Scipione, quello che aveva distrutto Cartagine, quando si prevedeva che stesse per finire con quella scostumatezza che descrive Sallustio. Il dialogo si teneva in quel periodo in cui era già stato ucciso uno dei Gracchi; e proprio da quel tempo, come scrive Sallustio, cominciarono le gravi sedizioni 41. In quell'opera si fa menzione appunto della morte del Gracco. Dice dunque Scipione alla fine del secondo libro dell'opera citata: Negli strumenti a corda o a fiato ed anche nel canto vocale si deve produrre dai vari suoni un determinato accordo. Se esso non varia o discorda, l'udito di un intenditore non può sopportarlo. L'accordo in parola inoltre risulta armonico e proporzionato dalla regolata intensità di suoni di diversa altezza. Allo stesso modo lo Stato si armonizza mediante ceti alti, bassi e mediani, a guisa di suoni, in moderata proporzione dall'accordo di elementi molto differenti; e quella che dai musici nel canto si chiama armonia è nello Stato la concordia che è eticamente il più profondo vincolo di sopravvivenza in ogni società civile e non si può avere assolutamente senza la giustizia 42. E avendo dimostrato con un po' di ampiezza e di ricchezza di osservazioni quanto è utile allo Stato la giustizia e quanto nociva la sua mancanza, prese a parlare Filo, uno di quelli che era presente al dialogo. Egli chiese che il problema fosse approfondito e che si parlasse più diffusamente della giustizia a causa del già diffuso pregiudizio popolare che la società non si può governare senza l'ingiustizia. Scipione fu d'accordo che il problema fosse da discutere e da svolgere e precisò che, a suo modo di vedere, sulla società civile non erano ancora stati esposti dei concetti da cui sviluppare ulteriormente. Era stato però accertato che non solo è falso che la società non si può amministrare senza ingiustizia ma è assolutamente vero che non lo si può senza una grande giustizia 43. Ed essendo stata differita la trattazione al giorno seguente, nel terzo libro l'argomento fu svolto in un acceso dibattito. Filo si incaricò di sostenere il parere di coloro i quali ritenevano che la società non si può reggere senza l'ingiustizia, affermando con insistenza che non si ritenesse come sua opinione e si batté con vigore per l'ingiustizia contro la giustizia nel simulato tentativo di dimostrare con argomentazioni verosimili ed esempi che la ingiustizia è utile, la giustizia è disutile. Allora Lelio, poiché tutti lo pregavano di difendere la giustizia, cominciò con l'affermare, quanto gli riuscì, che niente è tanto avverso allo Stato come l'ingiustizia e che la società civile può essere amministrata e conservata soltanto con una grande giustizia 44.

21. 2. Trattato il problema per il tempo che si ritenne opportuno, Scipione tornò ai concetti accennati, richiamò e difese la propria breve definizione della società civile. Aveva detto che è lo stato del popolo 45. Stabilì che popolo non è un qualsiasi gruppo d'individui ma un gruppo associato dalla universalità del diritto e dalla comunanza degli interessi. Mostrò poi quanto sia grande nel discutere l'utilità della definizione e dalle sue definizioni dedusse che allora soltanto si ha la società civile, cioè lo stato del popolo, quando si amministra con onestà e giustizia, sia da un monarca o da pochi ottimati o da tutto il popolo. Se invece il re è ingiusto, e secondo la terminologia greca lo chiamò tiranno, o ingiusti gli ottimati, e considerò fazione il loro accordo, o ingiusto il popolo, e non trovò la denominazione abituale, a meno di considerarlo, anche esso, tiranno, allora la società civile non solo sarebbe guasta, come il giorno avanti era stato sostenuto, ma come avrebbe dimostrato la logica conseguenza da quelle definizioni, è inesistente perché non sarebbe lo stato del popolo. Al contrario la occuperebbero il tiranno o la fazione; il popolo stesso, se fosse ingiusto, non sarebbe più un popolo perché non sarebbe una moltitudine associata dall'universalità del diritto e dalla comunanza degli interessi, come il popolo era stato definito 46.

21. 3. Quando dunque la società romana era nelle condizioni in cui la descrive Sallustio, non era ancora eticamente molto depravata, come la descrive lui, ma del tutto inesistente secondo il criterio dichiarato nel dialogo sulla società tenuto dai suoi cittadini più eminenti. Così pensa anche Cicerone non fingendo di esprimersi con le parole di Scipione o di altri, ma a nome proprio, al principio del quinto libro. Cita prima di tutto un verso del poeta Ennio che diceva: Lo Stato romano è saldo in virtù dei costumi e uomini antichi 47. Mi sembra, continua Cicerone, che per la brevità e la verità egli abbia derivato quel verso come da un oracolo. Infatti né gli uomini, se la cittadinanza non fosse stata di buoni costumi, né i costumi, se non fossero stati a capo quegli uomini, avrebbero potuto fondare o conservare tanto a lungo una società civile tanto grande e che domina su regioni tanto estese. Quindi nel periodo anteriore al nostro ricordo lo stesso costume patrio adoperava uomini eccellenti e questi conservavano l'antico costume e gli istituti degli antenati. La nostra età avendo avuto in consegna una società come una pittura perfetta, ma un po' stinta dall'antichità, non solo ha trascurato di restaurarla con i colori originali, ma non si è preoccupata neanche di conservare almeno il modellato e il disegno. Che cosa rimane dei costumi antichi con cui, come Ennio ha detto, stava saldo lo Stato romano se li vediamo talmente in disuso per dimenticanza che non solo non sono conservati ma perfino ignorati? E che dire degli uomini? I costumi sono scomparsi per carenza di uomini. E di un così grande male non solo dovremmo render conto ma in certo senso essere accusati di delitto capitale. E a causa dei nostri vizi e non per una eventualità qualsiasi conserviamo il nome di società civile ma in realtà l'abbiamo perduta da tempo 48.

21. 4. Cicerone confessava questo stato di cose molto tempo dopo la morte dell'Africano che nei suoi libri ha fatto disputare sulla società, ma prima ancora della venuta di Cristo. Se questi mali fossero noti al pubblico e dichiarati esplicitamente quando la religione cristiana era conosciuta e vigorosa, chi non avrebbe ritenuto di doverli imputare ai cristiani? Perché i loro dèi non si preoccuparono che non andasse del tutto in rovina la società civile che Cicerone, molto tempo prima che Cristo venisse, lamenta con tanta tristezza ormai perduta? Si informino i panegiristi della società romana in quale condizione era anche con quegli antichi uomini e costumi, se cioè in essa era in vigore la vera giustizia ovvero se neanche allora era viva nei costumi ma dipinta con colori. L'ha detto inconsapevolmente lo stesso Cicerone nel lodarla. Ma altrove, se Dio vorrà, esamineremo questo argomento 49. Cicerone ha presentato brevemente con le parole di Scipione che cos'è la società civile e che cos'è il popolo aggiungendo molte opinioni sue e di coloro che ha fatto parlare in quel dialogo. Ed io mi sforzerò a suo tempo di dimostrare in base alla definizione dello stesso Cicerone che quella non fu mai una società civile perché non si ebbe mai in essa la vera giustizia. In base a definizioni abbastanza probabili fu per certi suoi aspetti una società civile e fu meglio amministrata dagli antichi che da quelli che seguirono. Ma la vera giustizia si ebbe soltanto nella società, di cui Cristo è fondatore e sovrano, se è ammesso di considerare anche essa uno Stato pubblico, perché non si può negare che è uno Stato del popolo. Se poi questo nome, che si usa diversamente nei vari luoghi, è forse meno adatto al nostro modo di parlare, v'è certamente giustizia in quella città, di cui la sacra Scrittura dice: Azioni gloriose sono state narrate di te, o città di Dio 50.

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