martedì 3 maggio 2011

La Città di Dio - XVI parte

Riprendiamo la lettura dell'opera di Sant'Agostino nota come "La città di Dio". Il pensiero agostiniano è fermo a sottolineare le incoerenze romane nel loro rapporto con gli dei: ed in particolar, ci interessa la chiamata in causa del noto Platone...: 

13. Ma forse, se fosse vivo, mi risponderebbe: "Come potevamo volere che quegli oltraggi non rimanessero impuniti, se gli dèi stessi vollero che fossero riti sacri, quando introdussero nelle usanze romane gli spettacoli teatrali, in cui quei fatti sono esaltati, recitati, messi in azione e ordinarono che fossero dedicati e dati in loro onore?". Dunque perché non si è capito che non sono dèi veri e per niente degni che lo Stato tributasse loro onori divini? Era assolutamente sconveniente e inopportuno onorarli qualora avessero richiesto spettacoli con infamie contro i Romani. E allora, scusate, come si è pensato di doverli onorare, come non si è capito che erano spiriti detestabili dal momento che col desiderio d'ingannare hanno richiesto che fra i loro titoli d'onore si ricordassero i loro misfatti? Parimenti i Romani, sebbene fossero già costretti da una nociva superstizione ad adorare dèi che, come capivano, s'erano fatti dedicare drammi indecorosi, tuttavia memori della propria dignità e decoro, non onorarono gli attori di tali drammi come i Greci. In Cicerone il citato Scipione dice: Poiché consideravano indecorosi l'arte e lo spettacolo teatrale, vollero che gli addetti ad essi fossero privi dei diritti civili e allontanati dalla tribù con nota infamante del censore 21. Nobile principio giuridico e da computarsi fra le benemerenze di Roma, ma vorrei che fosse coerente con se stessa, che imitasse se stessa. A norma di diritto se qualcuno dei cittadini romani avesse scelto di far l'attore, non solo non gli si dava accesso alle cariche ma con nota del censore non gli si consentiva di appartenere alla propria tribù. Oh coscienza amante della civiltà vera e autenticamente romana! Ma mi si potrebbe chiedere di rimando: "Per quale coerente principio gli attori teatrali sono considerati inabili alle cariche e gli spettacoli teatrali sono inseriti nelle onoranze prestate agli dèi? La moralità romana per lungo tempo non conobbe le arti del teatro, giacché se si fossero introdotte come divertimento per la tendenza umana al piacere, si sarebbero insinuate a discapito della morale. E gli dèi richiesero che fossero loro presentate. Perché dunque si rifiuta l'attore se mediante lui si onora il dio? E con quale faccia si bolla l'esecutore della licenziosità teatrale se il promotore è adorato?". In questa contestazione, rispondo io, se la vedano fra di loro Greci e Romani. I Greci ritengono di onorare ragionevolmente gli attori perché onorano gli dèi sollecitatori degli spettacoli teatrali; i Romani non tollerano che dagli attori sia disonorata neanche una tribù della plebe e tanto meno la curia del senato. In questo dibattito il seguente sillogismo coglie l'essenziale del problema: prima premessa dei Greci: se dèi simili si devono adorare, certamente anche uomini simili si devono onorare; seconda premessa dei Romani: ma per niente affatto uomini simili si devono onorare; conclusione dei cristiani: dunque per niente affatto dèi simili si devono adorare.

14. 1. Chiedo poi perché anche i poeti autori di drammi di tal fatta, ai quali dalla legge delle dodici tavole è stato proibito di ledere la reputazione dei cittadini, se scagliano insulti così ignominiosi contro gli dèi, non sono considerati infami come gli attori. Per quale ragione è stato stabilito che siano infamati gli attori e onorati gli autori di favole poetiche e di dèi privi di ogni decoro? O si deve piuttosto dare la palma al greco Platone che, figurando con la ragione uno Stato ideale, ritenne che i poeti si devono cacciare dalla città come nemici della verità? Egli non tollerava gli oltraggi contro gli dèi e non voleva che le coscienze dei cittadini fossero corrotte per mollezza dalle favole 22. E adesso confronta l'umanità di Platone che, per non far corrompere i cittadini, caccia i poeti dalla città con la divinità degli dèi che chiede in proprio onore gli spettacoli teatrali. Platone, anche se dialetticamente non convinse, consigliò tuttavia la leggerezza e dissolutezza dei Greci affinché non fossero neanche scritti i drammi; gli dèi estorsero col comando alla ponderatezza e morigeratezza dei Romani che fossero perfino eseguiti. E vollero che non solo fossero eseguiti ma anche dedicati, offerti in voto e presentati loro solennemente. A chi a buon conto lo Stato tributerebbe più onestamente onori divini? A Platone che proibisce queste oscenità e nefandezze o ai demoni che godono di ingannare così uomini ai quali quegli non riuscì a dimostrare irrefutabilmente i veri valori?


14. 2. Labeone ha pensato di computare Platone fra i semidei come Ercole e Romolo. Considera i semidei superiori agli eroi ma li colloca entrambi fra le divinità. Tuttavia io non dubito di considerare Platone, che Labeone chiama semidio, non soltanto superiore agli eroi ma anche agli stessi dèi. Le leggi dei Romani sono vicine alla speculazione di Platone poiché egli condanna tutte le favole poetiche ed essi tolgono ai poeti la libertà di dir male per lo meno degli uomini; egli priva i poeti della stessa cittadinanza ed essi privano dei diritti civili per lo meno gli attori delle favole drammatiche e se ardissero opporsi agli dèi che richiedono gli spettacoli, forse li priverebbero di tutto. Dunque i Romani non potrebbero mai ricevere o aspettare dai propri dèi leggi per difendere la moralità e reprimere l'immoralità perché di gran lunga li superano con le proprie leggi. Gli dèi in proprio onore richiedono spettacoli teatrali, i Romani rifiutano agli attori tutti gli onori. Gli dèi comandano che si celebrino in loro onore con le immaginazioni poetiche gli oltraggi contro se stessi, i Romani distolgono la sfrontatezza dei poeti dall'oltraggio contro gli uomini. Platone considerato semidio si oppose alla licenziosità di dèi così fatti e mostrò che cosa si doveva stabilire con un temperamento come quello dei Romani, giacché addirittura non voleva che in uno Stato ben costituito esistessero i poeti stessi che favoleggiassero a capriccio o proponessero da imitare ad uomini infelici i misfatti degli dèi. Io non ritengo Platone né un dio né un semidio e non lo metto alla pari né con un angelo del sommo Dio né con un profeta veritiero né con un apostolo né con un martire del Cristo né con un qualsiasi cristiano. Con l'aiuto di Dio tratterò a suo luogo il motivo di questa mia opinione 23. Ma giacché i pagani pensano che sia un semidio, ritengo che forse non si può considerarlo superiore a Romolo ed Ercole. E lo si potrebbe anche perché di lui né storico ha scritto né poeta ha immaginato che abbia ucciso il fratello o compiuto qualche azione criminosa. Ma è certamente superiore a Priapo o ad Anubi dalla testa di cane e al limite anche a Febbre, divinità queste che i Romani in parte ricevettero dal di fuori, in parte divinizzarono come indigeti. Dèi simili non potevano in alcun modo impedire con sani ordinamenti e leggi i grandi mali spirituali e morali che sovrastavano o provvedere ad estirpare quelli già introdotti. Anzi essi provvidero a far nascere e crescere i misfatti perché desideravano far conoscere alle masse mediante solenni spettacoli teatrali azioni malvagie o loro o presentate come loro, di modo che, data l'autorità divina, spontaneamente si accendesse la passione umana. E invano gridava Cicerone che trattando dei poeti ha detto: Appena loro sono giunte la richiesta e l'approvazione della massa come se fosse un autorevole e saggio maestro, addensano folte tenebre, introducono grandi timori, accendono dannose passioni

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