martedì 10 maggio 2011

La Città di Dio - XVII parte

Riprendiamo la lettura dell'opera di Sant'Agostino nota come "La città di Dio". Il pensiero agostiniano è fermo a sottolineare le incoerenze romane nel loro rapporto con gli dei, al limite dell'assurdo e del grottesco: 


15. Vi fu un criterio nella scelta degli dèi, sia pure falsi, o è piuttosto adulazione? Perché intanto non ritennero Platone neanche degno di un tempietto, pur considerandolo semidio? Eppure si era impegnato con eccellenti opere filosofiche a non far decadere la moralità con i mali spirituali che più degli altri si devono evitare. E poi hanno ritenuto Romolo superiore a molti loro dèi, sebbene una loro dottrina esoterica lo presenti non dio ma semidio 25. Gli hanno perfino destinato un sacerdote flamine. Questo tipo di sacerdozio nella religione romana fu, come dimostra il berretto, tanto in onore che si ebbero soltanto tre flamini destinati a tre divinità, il Diale a Giove, il Marziale a Marte, il Quirinale a Romolo 26. Per gratitudine dei cittadini egli accolto in cielo fu chiamato Quirino. Dunque Romolo in questo onore ebbe la prelazione su Nettuno e Plutone, fratelli di Giove e anche su Saturno loro padre. Così tributarono a lui un sacerdozio analogo a quello grande tributato a Giove e a Marte, che poi ne era il padre. Fu forse per riguardo a lui.


16. Se i Romani avessero potuto ricevere leggi morali dai propri dèi, non avrebbero dopo alcuni anni dalla fondazione di Roma preso in prestito dagli Ateniesi le leggi di Solone 27. Tuttavia non le conservarono come le avevano ricevute ma si sforzarono di renderle migliori e più perfette. Eppure Licurgo aveva fantasticato di avere stabilito le leggi per gli Spartani con l'autorità di Apollo 28. I Romani da saggi che erano non vollero crederlo e per questo non le derivarono da lui. Si tramanda che Numa Pompilio, successore di Romolo nel regno, stabilì alcune leggi che non erano affatto sufficienti per amministrare lo Stato 29. Egli organizzò anche molti riti religiosi ma non si dice che abbia ricevuto le leggi dalle divinità. Dunque gli dèi non si preoccuparono affatto che capitassero ai loro adoratori mali spirituali, mali sociali, mali morali; eppure sono mali tanto grandi che, secondo l'affermazione di alcuni loro uomini dottissimi, pur rimanendo le città, gli Stati sono annientati. Anzi, come è stato detto dianzi, gli dèi si diedero da fare perché i mali aumentassero.


17. Ma forse non sono state stabilite dalle divinità leggi per il popolo romano, perché, come dice Sallustio, il diritto e la morale presso di loro non avevano efficacia in virtù delle leggi ma della natura 30? Da tale diritto e morale suppongo che derivi il ratto delle Sabine. Che cosa di più giuridico e morale che le figlie di altri, richiamate col pretesto di uno spettacolo, non fossero date in matrimonio dai genitori ma prese con la violenza ad arbitrio di chi voleva? Se i Sabini agivano contro il diritto nel rifiutare le fanciulle richieste, molto più contro il diritto era rapirle senza che fossero date in matrimonio. Era più giusto far guerra con una popolazione che aveva rifiutato a corregionali e confinanti le proprie figlie chieste come mogli che con una popolazione che le richiedeva perché rapite. Era preferibile che avvenisse una guerra simile. Allora Marte avrebbe aiutato il figlio che combatteva per vendicare con le armi il rifiuto delle unioni coniugali e avere così le donne che desiderava. Come vincitore poteva forse giustamente per diritto in tempo di guerra prendere le fanciulle che gli erano state negate ingiustamente, ma senza alcun diritto rapì in tempo di pace le fanciulle rifiutate e condusse una guerra ingiusta contro i loro genitori giustamente indignati. Ma il fatto si verificò con un risultato favorevole. Infatti sebbene a ricordo di quell'inganno si perpetuò lo spettacolo dei giochi del circo, non piacque nella città e nei popoli dominati l'esempio di quel crimine. I Romani dunque hanno sbagliato piuttosto nel divinizzare Romolo dopo quella ingiustizia che nel concedere con qualche legge o usanza d'imitarne l'esempio nel rapire donne. In base a questo diritto e morale, dopo l'espulsione del re Tarquinio e figli, dato che un suo figlio aveva violentato Lucrezia, il console Giunio Bruto costrinse a rinunciare alla carica e fece esiliare, a causa del nome e parentela con i Tarquini, il marito della stessa Lucrezia e suo collega Lucio Tarquinio Collatino, uomo moralmente incolpevole. E commise questo delitto col favore o per lo meno con la tolleranza del popolo, sebbene proprio dal popolo Collatino e lo stesso Bruto avessero ricevuto il consolato. Di questo diritto e morale fu vittima anche Marco Camillo, l'uomo più grande di quel tempo. Egli sconfisse con molta bravura i Veienti, nemici temibili del popolo romano e occupò la loro città ricchissima dopo una guerra durata dieci anni, durante la quale l'esercito romano per errori di strategia era stato più volte gravemente battuto, quando già Roma trepidava nell'incertezza di scampare. Eppure fu chiamato in giudizio per l'invidia dei denigratori del suo valore e per l'impertinenza dei tribuni della plebe. Capì l'ingratitudine della città che aveva salvata al punto che certo della condanna andò in volontario esilio e fu anche condannato in contumacia all'ammenda di diecimila assi di rame. Poco dopo avrebbe di nuovo salvato l'ingrata patria dai Galli. Non mi va di addurre altri fatti immorali e ingiusti, da cui era messo in subbuglio lo Stato quando i patrizi tentavano di sottomettere la plebe e questa rifiutava di sottomettersi e i fautori dell'uno e dell'altro partito agivano per amore di dominare senza pensare affatto al giusto e all'onesto.

 

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