giovedì 30 giugno 2011

Catechismo della Chiesa Cattolica - XXXII parte

Proseguiamo il nostro percorso volto alla conoscenza del Catechismo della Chiesa Cattolica. Proseguiamo la lettura del Capitolo Terzo, attraverso i primi tre paragrafi dell'Articolo 8 del quale abbiamo già iniziato la lettura la scorsa settimana:


CAPITOLO TERZO: CREDO NELLO SPIRITO SANTO

ARTICOLO 8

I. La missione congiunta del Figlio e dello Spirito

689 Colui che il Padre ha mandato nei nostri cuori, lo Spirito del suo Figlio,7 è realmente Dio. Consostanziale al Padre e al Figlio, ne è inseparabile, tanto nella vita intima della Trinità quanto nel suo dono d'amore per il mondo. Ma adorando la Santissima Trinità, vivificante, consostanziale e indivisibile, la fede della Chiesa professa anche la distinzione delle Persone. Quando il Padre invia il suo Verbo, invia sempre il suo Soffio: missione congiunta in cui il Figlio e lo Spirito Santo sono distinti ma inseparabili. Certo, è Cristo che appare, egli, l'immagine visibile del Dio invisibile, ma è lo Spirito Santo che lo rivela.

690 Gesù è Cristo, « unto », perché lo Spirito ne è l'unzione, e tutto ciò che avviene a partire dall'incarnazione sgorga da questa pienezza.8 Infine, quando Cristo è glorificato,9 può, a sua volta, dal Padre, inviare lo Spirito a coloro che credono in lui: comunica loro la sua gloria,10 cioè lo Spirito Santo che lo glorifica.11 La missione congiunta si dispiegherà da allora in poi nei figli adottati dal Padre nel corpo del suo Figlio: la missione dello Spirito di adozione sarà di unirli a Cristo e di farli vivere in lui:

« La nozione di unzione suggerisce [...] che non c'è alcuna distanza tra il Figlio e lo Spirito. Infatti, come tra la superficie del corpo e l'unzione dell'olio né la ragione né la sensazione conoscono intermediari, così è immediato il contatto del Figlio con lo Spirito; di conseguenza colui che sta per entrare in contatto con il Figlio mediante la fede, deve necessariamente dapprima entrare in contatto con l'olio. Nessuna parte infatti è priva dello Spirito Santo. Ecco perché la confessione della signoria del Figlio avviene nello Spirito Santo per coloro che la ricevono, dato che lo Spirito Santo viene da ogni parte incontro a coloro che si approssimano per la fede ».12

II. Il nome, gli appellativi e i simboli dello Spirito Santo

Il nome proprio dello Spirito Santo

691 « Spirito Santo », tale è il nome proprio di colui che noi adoriamo e glorifichiamo con il Padre e il Figlio. La Chiesa lo ha ricevuto dal Signore e lo professa nel Battesimo dei suoi nuovi figli.13

Il termine « Spirito » traduce il termine ebraico Ruah, che nel suo senso primario significa soffio, aria, vento. Gesù utilizza proprio l'immagine sensibile del vento per suggerire a Nicodemo la novità trascendente di colui che è il Soffio di Dio, lo Spirito divino in persona.14 D'altra parte, Spirito e Santo sono attributi divini comuni alle tre Persone divine. Ma, congiungendo i due termini, la Scrittura, la liturgia e il linguaggio teologico designano la Persona ineffabile dello Spirito Santo, senza possibilità di equivoci con gli altri usi dei termini « spirito » e « santo ».

Gli appellativi dello Spirito Santo

692 Gesù, quando annunzia e promette la venuta dello Spirito Santo, lo chiama A"DVi80J@H, letteralmente: « Colui che è chiamato vicino », « advocatus » (Gv 14,16.26; 15,26; 16,7). A"DVi80J@H viene abitualmente tradotto « Consolatore », essendo Gesù il primo consolatore.15 Il Signore stesso chiama lo Spirito Santo « Spirito di verità » (Gv 16,13).

693 Oltre al suo nome proprio, che è il più usato negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere, in san Paolo troviamo gli appellativi: « Spirito [...] promesso » (Ef 1,13; Gal 3,14), « Spirito da figli adottivi » (Rm 8,15; Gal 4,6), « Spirito di Cristo » (Rm 8,9), « Spirito del Signore » (2 Cor 3,17), « Spirito di Dio » (Rm 8,9.14; 15,19; 1 Cor 6,11; 7,40) e, in san Pietro, « Spirito della gloria » (1 Pt 4,14).

I simboli dello Spirito Santo

694 L'acqua. Il simbolismo dell'acqua significa l'azione dello Spirito Santo nel Battesimo, poiché dopo l'invocazione dello Spirito Santo essa diviene il segno sacramentale efficace della nuova nascita: come la gestazione della nostra prima nascita si è operata nell'acqua, allo stesso modo l'acqua battesimale significa realmente che la nostra nascita alla vita divina ci è donata nello Spirito Santo. Ma, « battezzati in un solo Spirito », noi « ci siamo » anche « abbeverati a un solo Spirito » (1 Cor 12,13): lo Spirito, dunque, è anche personalmente l'Acqua viva che scaturisce da Cristo crocifisso come dalla sua sorgente16 e che in noi zampilla per la vita eterna.17

695 L'unzione. Il simbolismo dell'unzione con l'olio è talmente significativo dello Spirito Santo da divenirne il sinonimo.18 Nell'iniziazione cristiana essa è il segno sacramentale della Confermazione, chiamata giustamente nelle Chiese d'Oriente « Crismazione ». Ma per coglierne tutta la forza, bisogna tornare alla prima unzione compiuta dallo Spirito Santo: quella di Gesù. Cristo (« Messia » in ebraico) significa « unto » dallo Spirito di Dio. Nell'Antica Alleanza ci sono stati alcuni « unti » del Signore,19 primo fra tutti il re Davide.20 Ma Gesù è l'unto di Dio in una maniera unica: l'umanità che il Figlio assume è totalmente « unta di Spirito Santo ». Gesù è costituito « Cristo » dallo Spirito Santo.21 La Vergine Maria concepisce Cristo per opera dello Spirito Santo, il quale, attraverso l'angelo, lo annunzia come Cristo fin dalla nascita22 e spinge Simeone ad andare al Tempio per vedere il Cristo del Signore;23 è lui che ricolma Cristo,24 è sua la forza che esce da Cristo negli atti di guarigione e di risanamento.25 È lui, infine, che risuscita Cristo dai morti.26 Allora, costituito pienamente « Cristo » nella sua umanità vittoriosa della morte,27 Gesù effonde a profusione lo Spirito Santo, finché « i santi » costituiranno, nella loro unione all'umanità del Figlio di Dio, l'« uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo » (Ef 4,13): « il Cristo totale », secondo l'espressione di sant'Agostino.28

696 Il fuoco. Mentre l'acqua significava la nascita e la fecondità della vita donata nello Spirito Santo, il fuoco simbolizza l'energia trasformante degli atti dello Spirito Santo. Il profeta Elia, che « sorse simile al fuoco » e la cui « parola bruciava come fiaccola » (Sir 48,1), con la sua preghiera attira il fuoco del cielo sul sacrificio del monte Carmelo,29 figura del fuoco dello Spirito Santo che trasforma ciò che tocca. Giovanni Battista, che cammina innanzi al Signore è « con lo spirito e la forza di Elia » (Lc 1,17), annunzia Cristo come colui che « battezzerà in Spirito Santo e fuoco » (Lc 3,16), quello Spirito di cui Gesù dirà: « Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! » (Lc 12,49). È sotto la forma di « lingue come di fuoco » che lo Spirito Santo si posa sui discepoli il mattino di pentecoste e li riempie di sé.30 La tradizione spirituale riterrà il simbolismo del fuoco come uno dei più espressivi dell'azione dello Spirito Santo:31 « Non spegnete lo Spirito » (1 Ts 5,19).

697 La nube e la luce. Questi due simboli sono inseparabili nelle manifestazioni dello Spirito Santo. Fin dalle teofanie dell'Antico Testamento, la nube, ora oscura, ora luminosa, rivela il Dio vivente e salvatore, velando la trascendenza della sua gloria: con Mosè sul monte Sinai,32 presso la tenda del convegno33 e durante il cammino nel deserto;34 con Salomone al momento della dedicazione del Tempio.35 Ora, queste figure sono portate a compimento da Cristo nello Spirito Santo. È questi che scende sulla Vergine Maria e su di lei stende la « sua ombra », affinché ella concepisca e dia alla luce Gesù.36 Sulla montagna della trasfigurazione è lui che viene nella nube che avvolge Gesù, Mosè e Elia, Pietro, Giacomo e Giovanni, e « dalla nube » esce una voce che dice: « Questi è il mio Figlio, l'eletto; ascoltatelo » (Lc 9,35). Infine, è la stessa nube che sottrae Gesù allo sguardo dei discepoli il giorno dell'ascensione37 e che lo rivelerà Figlio dell'uomo nella sua gloria il giorno della sua venuta.38

698 Il sigillo è un simbolo vicino a quello dell'unzione. Infatti su Cristo «Dio ha messo il suo sigillo» (Gv 6,27), e in lui il Padre segna anche noi con il suo sigillo.39 Poiché indica l'effetto indelebile dell'unzione dello Spirito Santo nei sacramenti del Battesimo, della Confermazione e dell'Ordine, l'immagine del sigillo (FND"(\H), è stata utilizzata in certe tradizioni teologiche per esprimere il « carattere » indelebile impresso da questi tre sacramenti che non possono essere ripetuti.

699 La mano. Imponendo le mani Gesù guarisce i malati40 e benedice i bambini.41 Nel suo nome, gli Apostoli compiranno gli stessi gesti.42 Ancor di più, è mediante l'imposizione delle mani da parte degli Apostoli che viene donato lo Spirito Santo.43 La lettera agli Ebrei mette l'imposizione delle mani tra gli « articoli fondamentali » del suo insegnamento.44 La Chiesa ha conservato questo segno dell'effusione onnipotente dello Spirito Santo nelle epiclesi sacramentali.

700 Il dito. « Con il dito di Dio » Gesù scaccia « i demoni ».45 Se la Legge di Dio è stata scritta su tavole di pietra « dal dito di Dio » (Es 31,18), « la lettera di Cristo », affidata alle cure degli Apostoli, è « scritta con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei [...] cuori » (2 Cor 3,3). L'inno « Veni, Creator Spiritus » invoca lo Spirito Santo come « dexterae Dei tu digitus – dito della mano di Dio ».46

701 La colomba. Alla fine del diluvio (il cui simbolismo riguarda il Battesimo), la colomba fatta uscire da Noè torna, portando nel becco un freschissimo ramoscello d'ulivo, segno che la terra è di nuovo abitabile.47 Quando Cristo risale dall'acqua del suo battesimo, lo Spirito Santo, sotto forma di colomba, scende su di lui e in lui rimane.48 Lo Spirito scende e prende dimora nel cuore purificato dei battezzati. In alcune chiese, la santa Riserva eucaristica è conservata in una custodia metallica a forma di colomba (il columbarium) appesa al di sopra dell'altare. Il simbolo della colomba per indicare lo Spirito Santo è tradizionale nell'iconografia cristiana.

III. Lo Spirito e la Parola di Dio nel tempo delle promesse

702 Dalle origini fino alla « pienezza del tempo »,49 la missione congiunta del Verbo e dello Spirito del Padre rimane nascosta, ma è all'opera. Lo Spirito di Dio va preparando il tempo del Messia, e l'uno e l'altro, pur non essendo ancora pienamente rivelati, vi sono già promessi, affinché siano attesi e accolti al momento della loro manifestazione. Per questo, quando la Chiesa legge l'Antico Testamento,50 vi cerca51 ciò che lo Spirito, « che ha parlato per mezzo dei profeti »,52 vuole dirci di Cristo.

Con il termine « profeti » la fede della Chiesa intende in questo caso tutti coloro che furono ispirati dallo Spirito Santo nel vivo annuncio e nella redazione dei Libri Sacri, sia dell'Antico sia del Nuovo Testamento. La tradizione ebraica distingue la Legge (i primi cinque libri o Pentateuco), i Profeti (corrispondenti ai nostri libri detti storici e profetici) e gli Scritti (soprattutto sapienziali, in particolare i Salmi).53

Nella creazione

703 La Parola di Dio e il suo Soffio sono all'origine dell'essere e della vita di ogni creatura:54

« È proprio dello Spirito Santo governare, santificare e animare la creazione, perché egli è Dio consostanziale al Padre e al Figlio [...]. Egli ha potere sulla vita, perché, essendo Dio, custodisce la creazione nel Padre per mezzo del Figlio ».55

704 « Quanto all'uomo, Dio l'ha plasmato con le sue proprie mani [cioè il Figlio e lo Spirito Santo] [...] e sulla carne plasmata disegnò la sua propria forma, in modo che anche ciò che era visibile portasse la forma divina ».56

Lo Spirito della Promessa

705 Sfigurato dal peccato e dalla morte, l'uomo rimane « a immagine di Dio », a immagine del Figlio, ma è privo « della gloria di Dio »,57 della « somiglianza ». La Promessa fatta ad Abramo inaugura l'Economia della salvezza, al termine della quale il Figlio stesso assumerà « l'immagine »58 e la restaurerà nella « somiglianza » con il Padre, ridonandole la gloria, lo Spirito « che dà la vita ».

706 Contro ogni speranza umana, Dio promette ad Abramo una discendenza, come frutto della fede e della potenza dello Spirito Santo.59 In essa saranno benedetti tutti i popoli della terra.60 Questa discendenza sarà Cristo,61 nel quale l'effusione dello Spirito Santo riunirà insieme i figli di Dio che erano dispersi.62 Impegnandosi con giuramento,63 Dio si impegna già al dono del suo Figlio Prediletto64 e al dono dello Spirito della Promessa che prepara la redenzione del popolo che Dio si è acquistato.65

Nelle teofanie e nella Legge

707 Le teofanie (manifestazioni di Dio) illuminano il cammino della Promessa, dai patriarchi a Mosè e da Giosuè fino alle visioni che inaugurano la missione dei grandi profeti. La tradizione cristiana ha sempre riconosciuto che in queste teofanie si lasciava vedere e udire il Verbo di Dio, ad un tempo rivelato e « adombrato » nella nube dello Spirito Santo.

708 Questa pedagogia di Dio appare specialmente nel dono della Legge,66 la quale è stata donata come un « pedagogo » per condurre il popolo a Cristo.67 Tuttavia, la sua impotenza a salvare l'uomo, privo della « somiglianza » divina, e l'accresciuta conoscenza del peccato che da essa deriva68 suscitano il desiderio dello Spirito Santo. I gemiti dei salmi lo testimoniano.

Nel regno e nell'esilio

709 La Legge, segno della Promessa e dell'Alleanza, avrebbe dovuto reggere il cuore e le istituzioni del popolo nato dalla fede di Abramo. « Se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa » (Es 19,5-6).69 Ma, dopo Davide, Israele cede alla tentazione di divenire un regno come le altre nazioni. Ora il regno, oggetto della promessa fatta a Davide,70 sarà opera dello Spirito Santo e apparterrà ai poveri secondo lo Spirito.

710 La dimenticanza della Legge e l'infedeltà all'Alleanza conducono alla morte: è l'esilio, apparente smentita delle promesse, di fatto misteriosa fedeltà del Dio salvatore e inizio della restaurazione promessa, ma secondo lo Spirito. Era necessario che il popolo di Dio subisse questa purificazione;71 l'esilio immette già l'ombra della croce nel disegno di Dio, e il resto dei poveri che ritorna dall'esilio è una delle figure più trasparenti della Chiesa.

L'attesa del Messia e del suo Spirito

711 « Ecco, faccio una cosa nuova » (Is 43,19). Cominciano a delinearsi due linee profetiche, fondate l'una sull'attesa del Messia, l'altra sull'annunzio di uno Spirito nuovo; esse convergono sul piccolo « resto », il popolo dei poveri,72 che attende nella speranza il « conforto d'Israele » e la « redenzione di Gerusalemme » (Lc 2,25.38).

Si è visto precedentemente come Gesù compia le profezie che lo riguardano. Qui ci si limita a quelle in cui è più evidente la relazione fra il Messia e il suo Spirito.

712 I tratti del volto del Messia atteso cominciano a emergere nel Libro dell'Emmanuele73 (quando « Isaia [...] vide la gloria » di Cristo: Gv 12,41), in particolare in Is 11,1-2:

« Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse,
un virgulto germoglierà dalle sue radici.
Su di lui si poserà lo spirito del Signore,
spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza,
spirito di conoscenza e di timore del Signore ».

713 I tratti del Messia sono rivelati soprattutto nei canti del Servo.74 Questi canti annunziano il significato della passione di Gesù, e indicano così in quale modo egli avrebbe effuso lo Spirito Santo per vivificare la moltitudine: non dall'esterno, ma assumendo la nostra « condizione di servi » (Fil 2,7). Prendendo su di sé la nostra morte, può comunicarci il suo Spirito di vita.

714 Per questo Cristo inaugura l'annunzio della Buona Novella facendo suo questo testo di Isaia (Lc 4,18-19):75

« Lo Spirito del Signore è sopra di me,
per questo mi ha consacrato con l'unzione
e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio,
per proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
per rimettere in libertà gli oppressi,
e predicare un anno di grazia del Signore ».

715 I testi profetici concernenti direttamente l'invio dello Spirito Santo sono oracoli in cui Dio parla al cuore del suo popolo nel linguaggio della Promessa, con gli accenti dell'amore e della fedeltà,76 il cui compimento san Pietro proclamò il mattino di pentecoste.77 Secondo queste promesse, negli « ultimi tempi », lo Spirito del Signore rinnoverà il cuore degli uomini scrivendo in essi una Legge nuova; radunerà e riconcilierà i popoli dispersi e divisi; trasformerà la primitiva creazione e Dio vi abiterà con gli uomini nella pace.

716 Il popolo dei « poveri »,78 gli umili e i miti, totalmente abbandonati ai disegni misteriosi del loro Dio, coloro che attendono la giustizia, non degli uomini ma del Messia, è alla fine la grande opera della missione nascosta dello Spirito Santo durante il tempo delle promesse per preparare la venuta di Cristo. È il loro cuore, purificato e illuminato dallo Spirito, che si esprime nei salmi. In questi poveri, lo Spirito prepara al Signore « un popolo ben disposto » (Lc 1,17).

mercoledì 29 giugno 2011

Verità della Fede - XXII parte

Tornano gli approfondimenti sulle "Verità della Fede" attraverso le attente analisi di Sant'Alfonso Maria de' Liguori. Siamo giunti al capitolo nono nel quale il Santo Vescovo, Fondatore dei Redentoristi e Dottore della Chiesa prova ancora una volta che Gesù Cristo è il vero Messia attraverso la conversione dei gentili predetta dai Profeti nell'Antico Testamento. Inoltre la conversione dei gentili conferma la veridicità delle Scritture:




Verità della Fede

di Sant'Alfonso Maria de' Liguori

SECONDA PARTE

Cap. IX.

CAP. IX. La conversione de' gentili prova la verità delle Scritture, e che Gesù Cristo è il vero Messia promesso.

1. Predissero i profeti che il Messia avrebbe illuminati e salvati non solo i giudei, ma anche i gentili. Ecco come parlò per Isaia: Propter Sion non tacebo, et propter Ierusalem non quiescam, donec egrediatur, ut splendor, iustus eius, et salvator eius, ut lampas, accendatur2. Io non tacerò per il bene di Sionne e di Gerusalemme, finché non uscirà sopra di lei il suo sole di giustizia, e, qual suo salvatore, non vi sparga la sua luce come una lampana accesa. Et videbunt gentes, siegue a parlare il profeta, iustum tuum, et cuncti reges inclytum tuum: et vocabitur tibi nomem novum, quod os Domini nominabit3. Ed allora, o Sionne, vedranno in te le genti il tuo giusto, e tutti i re la maestà del tuo principe: e tu sarai chiamata con un nome nuovo, che t'imporrà Dio stesso di sua bocca. Questo nuovo nome è quello che si esprime nel quarto verso: Non vocaberis ultra derelicta... sed vocaberis voluntas mea in ea, cioè sarai chiamata la mia compiacenza, la mia delizia, come spiega s. Geronimo; poiché dice il santo esser costume degli ebrei d'imporre il nome alle cose secondo il loro evento.

2. In altro luogo disse Dio per lo stesso profeta: Ecce servus meus, suscipiam eum etc. Dedi te in foedus populi, in lucem gentium; ut aperires oculos caecorum, ut educeres de conclusione vinctum, de domo carceris sedentes in tenebris4. Ecco il mio servo a me ben gradito. E quindi, rivolgendosi allo stesso Messia, gli dice: io ti ho destinato ad essere il mediatore del mio popolo e la luce delle genti, acciocché tu apra gli occhi de' ciechi, e cavi dalla carcere chi giace legato nelle tenebre. In altro luogo, parlando collo stesso Messia, gli dice: Parum est, ut sis mihi servus ad suscitandas tribus Iacob et faeces (Hebr. servatos) Israel convertendas. Ecce dedi te in lucem gentium, ut sis salus mea usque ad extremum terrae5. È poco che tu abbi a servirmi per rimettere le tribù d'Israele, e per procurare il ritorno di coloro ch'io mi ho riserbati del popolo mio: io ti ho dato per luce delle genti, e per operar la salute di tutto il mondo: dice Dio: Salus mea, come la salute degli uomini fosse la sua propria.

3. Dovea non però il Messia cominciar la conversione dal suo popolo degli ebrei, al quale principalmente era stato mandato, come egli disse poi alla donna Cananea: Non sum missus nisi ad oves quae perierunt domus Israel6. Ma già predisse poi il Signore per bocca di Davide che dopo che fosse stato rigettato dagli ebrei, egli avrebbe atteso alla conversione de' gentili, che ubbidienti gli si sarebbero sottoposti: Eripies me de contradictionibus populi; constitues me in caput gentium. Populus, quem non cognovi, servivit mihi7. Voi, Padre mio, mi libererete da questo popolo che non lascia di contraddirmi, e mi destinerete per capo delle genti. Popoli da me non conosciuti mi serviranno, e mi ubbidiranno per quel che di me e della mia dottrina avranno inteso dire. E qui chiaramente fu predetto che i gentili aveano da convertirsi non per bocca del Messia, ma per opera de' suoi discepoli dopo la di lui morte. E lo stesso significa quel che disse Isaia, parlando col Messia: Gentem quam nesciebas, vocabis; et gentes quae te non cognoverunt, ad te current1. Lo stesso predisse Isaia in altro luogo2Venio, ut congregem cum omnibus gentibus et linguis: et venient, et videbunt gloriam meam. Et ponam in eis signum, et mittam ex eis, qui salvati fuerint, ad gentes in mare, in Africam, et Lydiam, tendentes sagittam: in Italiam et Graeciam... ad eos qui non audierunt de me... Et adducent omnes fratres vestros de cunctis gentibus donum Domino... Et assumam ex eis in sacerdotes et levitas, dicit Dominus. Verrà tempo ch'io radunerò le genti di qualunque lingua; esse vedranno la mia gloria. Io a coloro che si saranno salvati col credere a me, metterò un segno (che sarà la virtù de' miracoli) e gli manderò fra le genti del mare ed oltre il mare; ed essi vi acquisteranno molti fratelli, che offeriranno a Dio. E tra essi io mi sceglierò de' sacerdoti e leviti.

4. Ora vediamo lo stato presente del mondo, per sapere se il Messia è venuto. Tante nazioni che prima adoravano gli idoli, ora adorano il vero Dio. Di chi mai fu opera questa conversione, se non del Messia, a cui fu riserbata quest'opera, anche per prova della sua venuta? E pure trovansi scrittori cristiani, ma di puro nome, che applicano queste profezie chi a Davide, chi a Salomone, chi a Geremia e chi ad Onia o a Ciro o a Giuda Maccabeo o ad alcun altro, come scrive Grozio3 tirato da' Sociniani suscitatori dell'empia dottrina de' marcioniti e manichei. Ma altri dottori saggi e veri cristiani, oltre i due prelati Uezio4 e monsignor Bossuet5 ed il p. Balto6 han dimostrata evidentemente la falsità delle stravolte interpretazioni degli eretici, contrarie al sentimento comune de' rabbini, della sinagoga, de' santi padri, degli apostoli e di Cristo medesimo, il quale disse:Quoniam necesse est impleri omnia, quae scripta sunt in lege Moysi et prophetis et psalmis de me7. Se Gesù Cristo non fosse stato vero Messia mandato da Dio e vero Dio, dovrebbe dirsi o che fosse stato un gran pazzo o un grande scellerato. Un gran pazzo; poiché qual maggior pazzia che volere introdurre una nuova religione contraria a Dio, mentre non v'è cosa più odiosa a Dio che il culto d'un Dio falso? Contraria alla natura corrotta degli uomini, giacché la religion cristiana molto si oppone all'umana concupiscenza: e contraria anche a' demonj; poiché ella si oppone al culto di essi ed a tutti i vizj, per la propagazione de' quali essi tanto s'affaticano. All'incontro Gesù Cristo dimostrò tanta sapienza, che le turbe intiere per ascoltarlo si dimenticavano anche di mangiare, ed anche i dottori della legge ne stavano ammirati e confusi. O sarebbe stato un grande scellerato, attribuendosi l'esser figlio naturale di Dio, colpa più enorme di quella di Lucifero, il quale non pretese tanto; quando che Gesù Cristo per le sue virtù fu da tutti conosciuto per santo, e gli stessi suoi nemici non trovarono da opporgli appresso Pilato, per farlo condannare, altro che menzogne e calunnie. Gesù Cristo fu vero Messia e vero Dio; e siccome cominciò egli a propagar la sua legge nella Giudea, così poi colla sua virtù divina seguì a propagarla per mezzo de' suoi discepoli con maggior avanzamento. Poiché dopo la sua morte la fede cristiana si sparse, e fu stabilita in tutto il mondo ed anche in Roma, dov'era la sede primaria di tutte le eresie ed empietà. Ma qui bisogna fermarci a considerare questa conversione de' gentili, quanto bene ella comprova così la venuta del Messia, come la verità della religion cristiana; e ciò faremo nel seguente capo.

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2 Isa. 62. 1. 

3 Ib. vers. 2. 

4 Isa. 42. 1. 6. et 7. 

5 Isa. 49. 6. 

6 Matth. 15. 24. 

7 Psal. 17. 44. et 45. 

1 Isa. 55. 5. 

2 66. 18. et 19. 

3 In Matth. 1. 22. 

4 Demonstr. evang.

5 Dissert. sopra la crit. di Grozio.

6 Difesa delle profez. contro Grozio.

7 Luc. 21. 44. 

martedì 28 giugno 2011

La Città di Dio - XXIV parte

Riprendiamo la lettura dell'opera di Sant'Agostino nota come "La città di Dio" e ritroviamo Sant'Agostino nel ribadire fermamente la mancata presenza degli dei nella storia e nei fatti concernenti Roma: 

Libro terzo

LA STORIA DI ROMA IN UNA VISIONE CRITICA
 

7. Quando poi le guerre civili erano già scoppiate, quale colpa aveva commesso Ilio perché fosse devastata da Fimbria, malvagio individuo del partito di Mario, con più spietata ferocia che in passato dai Greci? Almeno allora molti poterono fuggire dalla città ed alcuni, fatti prigionieri, sia pure in schiavitù, ebbero salva la vita. Invece Fimbria promulgò in precedenza un editto di non risparmiare alcuno e fece bruciare tutta la città e tutti i suoi abitanti. Questo trattamento si meritò Troia non dai Greci che aveva irritato col proprio misfatto ma dai Romani ai quali aveva dato origine con la propria distruzione. Eppure avevano i medesimi dèi che non l'aiutarono affatto ad evitare queste sventure o meglio, e questa è la verità, non ne erano capaci. Ma anche allora abbandonati templi e altari, si allontanarono tutti gli dèi 12 da cui era stata difesa quella città ricostruita dopo l'antico incendio e distruzione? E se si erano allontanati, ne chiedo la giustificazione e trovo che quanto è più buona quella degli abitanti, tanto è meno buona quella degli dèi. Gli abitanti infatti avevano chiuso le porte a Fimbria per mantenere fedele a Silla la cittadinanza e per questo Fimbria adirato l'incendiò o meglio la rase al suolo. Silla era in quel tempo il capo del partito nobile, si accingeva allora a riordinare con le armi lo Stato, non aveva ancora dato i cattivi risultati di questi buoni inizi. Che cosa dunque di meglio, di più onesto e leale e di più degno della madre patria romana avrebbero potuto fare gli abitanti di quella città che conservare la cittadinanza alla più giusta causa dei Romani e chiudere le porte all'assassino dello Stato romano? Ma i difensori degli dèi pensino che quel gesto si cambiò per loro in una immane catastrofe. Gli dèi avrebbero abbandonato gli adulteri e consegnato Troia al fuoco dei Greci perché dalle sue ceneri nascesse una Roma più casta. E allora perché hanno lasciato la medesima città, che è della stirpe dei Romani, nobile figlia che non si ribellava contro Roma ma manteneva la più costante e doverosa fedeltà al partito più legittimo e l'abbandonarono al saccheggio non degli eroi della Grecia ma del più lurido individuo di Roma?. Ovvero poniamo che dispiacesse agli dèi l'adesione al partito di Silla, giacché per mantenere fedele la città a lui quegli sventurati avevano chiuse le porte. E allora perché essi promettevano e preannunciavano tante vittorie al medesimo Silla? Oppure anche in questo caso si fanno conoscere come adulatori dei fortunati anziché difensori degli sventurati. Dunque anche nei tempi antichi Troia non fu distrutta perché abbandonata da loro. I demoni sempre vigili all'inganno hanno fatto ciò che hanno potuto. Distrutte infatti e incendiate tutte le statue assieme alla città, si tramanda, come Livio 13, che rimase intatta soltanto quella di Minerva nonostante la distruzione del suo tempio. E questo non perché si dicesse a loro lode: Gli dèi della patria sotto la cui protezione Troia è continuamente 14, ma perché non si dicesse a loro difesa: Abbandonati templi e altari, si sono allontanati tutti gli dèi. Fu infatti permesso loro di avere potere su quel fatto, non perché da esso si confermasse la loro potenza ma perché da esso si evidenziasse la loro presenza.

8. Con quale prudenza infine, dopo la lezione della stessa Troia, si è affidata la difesa di Roma agli dèi di Troia? Un tizio potrebbe rispondere che di solito risiedevano a Roma quando Troia cadde nel saccheggio di Fimbria. E allora perché rimase in piedi la statua di Minerva? Poi se erano a Roma quando Fimbria distrusse Troia, forse erano a Troia quando Roma stessa fu presa e saccheggiata dai Galli; ma siccome sono finissimi nell'udire e velocissimi nello spostarsi, rientrarono subito allo strepito delle oche per difendere almeno il colle capitolino che non era stato preso; del resto erano stati avvertiti troppo tardi per difendere le altre parti.

9. Si crede che gli dèi abbiano aiutato anche Numa Pompilio, successore di Romolo, ad avere pace in tutto il periodo del suo regno e a chiudere le porte del tempio di Giano che di solito sono aperte in guerra, per quel titolo, cioè, che egli istituì molti misteri per Roma 15. Ci si deve invece felicitare con quell'uomo per un così lungo periodo di pace, se pure avesse saputo impiegarlo per attività vantaggiose e, disprezzata una dannosa curiosità, avesse cercato con vera pietà il vero Dio. Ora non gli dèi gli accordarono quel periodo di pace, ma forse lo avrebbero ingannato di meno, se non lo avessero trovato inattivo. Quanto lo trovarono meno occupato, tanto più essi lo occuparono. Infatti ciò che egli istituì e con quali mezzi poté associare a sé e alla cittadinanza tali dèi ce lo narra Varrone 16. Se ne parlerà, se il Signore vorrà, più accuratamente a suo luogo 17. Ora l'argomento riguarda i favori degli dèi. Certamente la pace è un grande beneficio, ma è un beneficio del Dio vero, concesso il più delle volte, come il sole, la pioggia e le altre necessità della vita agli ingrati e ai malvagi. Ma se gli dèi hanno concesso a Roma o a Pompilio un bene così grande, perché in seguito non l'hanno mai più accordato all'impero romano anche in periodi di grande dignità morale? Forse che erano più utili i misteri quando venivano istituiti che quando già istituiti venivano compiuti? Al contrario, in quei tempi non c'erano ancora, ma venivano aggiunti perché ci fossero; in seguito c'erano già, ma venivano conservati perché giovassero. Ma che discorso è questo? Sono trascorsi in una lunga pace sotto il regno di Numa quarantatré, o come vogliono altri, trentanove anni 18. In seguito, dopo l'istituzione dei misteri e sotto la protezione e la tutela degli dèi stessi, che erano stati invitati a quelle celebrazioni, per lunghi anni, dalla fondazione di Roma fino ad Augusto, si considera come fatto meraviglioso un solo anno dopo la prima guerra punica in cui i Romani poterono chiudere le porte della guerra.

 

lunedì 27 giugno 2011

Redemptor hominis - La Prima Enciclica di Giovanni Paolo II - IX

Continuiamo la lettura della Redemptor hominis, ovvero la Prima Enciclica di Giovanni Paolo II che cerca di rispondere ai dubbi e ai problemi dell'uomo contemporaneo, cercando allo stesso modo di ridare vitalità all'opera della Chiesa. Oggi riscopriamo come la via principale della Chiesa sia proprio Gesù Cristo il quale si è realmente unito ad ogni uomo, chiamandolo incessantamente alla salvezza e alla gloria. Questo ci fa ricordare il significato della Venuta del Messia che ha donato tutto sé stesso per tutti gli uomini, di ogni generazione, senza alcuna distinzione o senza alcun pregiudizio:

III - L'uomo redento e la sua situazione nel mondo contemporaneo
 
13. Cristo si è unito ad ogni uomo

Quando, attraverso l'esperienza della famiglia umana in continuo aumento a ritmo accelerato, penetriamo nel mistero di Gesù Cristo, comprendiamo con maggiore chiarezza che, alla base di tutte queste vie lungo le quali, conforme alla saggezza del Pontefice Paolo VI86, deve proseguire la Chiesa dei nostri tempi, c'è un'unica via: è la via sperimentata da secoli, ed è, insieme, la via del futuro. Cristo Signore ha indicato questa via, soprattutto quando - come insegna il Concilio - «con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo»87. La Chiesa ravvisa, dunque, il suo còmpito fondamentale nel far sì che una tale unione possa continuamente attuarsi e rinnovarsi. La Chiesa desidera servire quest'unico fine: che ogni uomo possa ritrovare Cristo, perché Cristo possa, con ciascuno, percorrere la strada della vita, con la potenza di quella verità sull'uomo e sul mondo, contenuta nel mistero dell'Incarnazione e della Redenzione, con la potenza di quell'amore che da essa irradia. Sullo sfondo dei sempre crescenti processi nella storia, che nella nostra epoca sembrano fruttificare in modo particolare nell'àmbito di vari sistemi, concezioni ideologiche del mondo e regimi, Gesù Cristo diventa, in certo modo, nuovamente presente, malgrado tutte le apparenti sue assenze, malgrado tutte le limitazioni della presenza e dell'attività istituzionale della Chiesa. Gesù Cristo diventa presente con la potenza di quella verità e di quell'amore, che si sono espressi in Lui come pienezza unica e irripetibile, benché la sua vita in terra sia stata breve ed ancor più breve la sua attività pubblica.

Gesù Cristo è la via principale della Chiesa. Egli stesso è la nostra via «alla casa del Padre»88, ed è anche la via a ciascun uomo. Su questa via che conduce da Cristo all'uomo, su questa via sulla quale Cristo si unisce ad ogni uomo, la Chiesa non può esser fermata da nessuno. Questa è l'esigenza del bene temporale e del bene eterno dell'uomo. La Chiesa, per riguardo a Cristo ed in ragione di quel mistero che costituisce la vita della Chiesa stessa, non può rimanere insensibile a tutto ciò che serve al vero bene dell'uomo, così come non può rimanere indifferente a ciò che lo minaccia. Il Concilio Vaticano II, in diversi passi dei suoi documenti, ha espresso questa fondamentale sollecitudine della Chiesa, affinché «la vita nel mondo " sia " più conforme all'eminente dignità dell'uomo»89 in tutti i suoi aspetti, per renderla «sempre più umana»90. Questa è la sollecitudine di Cristo stesso, il buon Pastore di tutti gli uomini. In nome di tale sollecitudine - come leggiamo nella Costituzione pastorale del Concilio - «la Chiesa che, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana»91.

Qui, dunque, si tratta dell'uomo in tutta la sua verità, nella sua piena dimensione. Non si tratta dell'uomo «astratto», ma reale, dell'uomo «concreto», «storico». Si tratta di «ciascun» uomo, perché ognuno è stato compreso nel mistero della Redenzione, e con ognuno Cristo si è unito, per sempre, attraverso questo mistero. Ogni uomo viene al mondo concepito nel seno materno, nascendo dalla madre, ed è proprio a motivo del mistero della Redenzione che è affidato alla sollecitudine della Chiesa. Tale sollecitudine riguarda l'uomo intero ed è incentrata su di lui in modo del tutto particolare. L'oggetto di questa premura è l'uomo nella sua unica e irripetibile realtà umana, in cui permane intatta l'immagine e la somiglianza con Dio stesso92. Il Concilio indica proprio questo, quando, parlando di tale somiglianza, ricorda che «l'uomo in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa»93. L'uomo così com'è «voluto» da Dio, così come è stato da Lui eternamente «scelto», chiamato, destinato alla grazia e alla gloria: questo è proprio «ogni» uomo, l'uomo «il più concreto», «il più reale»; questo è l'uomo in tutta la pienezza del mistero di cui è divenuto partecipe in Gesù Cristo, mistero del quale diventa partecipe ciascuno dei quattro miliardi di uomini viventi sul nostro pianeta, dal momento in cui viene concepito sotto il cuore della madre.

 

domenica 26 giugno 2011

Il Libro di Giobbe - Quarantesimo e ultimo appuntamento

Concludiamo l'appuntamento settimanale con il Libro di Giobbe che ci ha visto impegnati nella lettura di questo bellissimo libro sapienziale per molti mesi. Il quarantaduesimo capitolo che leggeremo quest'oggi, ci aiuterà a comprendere come ogni prova e tribolazione saranno destinate a passare, ma la Parola di Dio resta e saranno grandi i benefici per coloro che l'avranno accolta e praticata:


42

1Allora Giobbe rispose al Signore e disse:
2Comprendo che puoi tutto
e che nessuna cosa è impossibile per te.
3Chi è colui che, senza aver scienza,
può oscurare il tuo consiglio?
Ho esposto dunque senza discernimento
cose troppo superiori a me, che io non comprendo.
4"Ascoltami e io parlerò,
io t'interrogherò e tu istruiscimi".
5Io ti conoscevo per sentito dire,
ma ora i miei occhi ti vedono.
6Perciò mi ricredo
e ne provo pentimento sopra polvere e cenere.

7Dopo che il Signore aveva rivolto queste parole a Giobbe, disse a Elifaz il Temanita: "La mia ira si è accesa contro di te e contro i tuoi due amici, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe. 8Prendete dunque sette vitelli e sette montoni e andate dal mio servo Giobbe e offriteli in olocausto per voi; il mio servo Giobbe pregherà per voi, affinché io, per riguardo a lui, non punisca la vostra stoltezza, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe".
9Elifaz il Temanita, Bildad il Suchita e Zofar il Naamatita andarono e fecero come loro aveva detto il Signore e il Signore ebbe riguardo di Giobbe.
10Dio ristabilì Giobbe nello stato di prima, avendo egli pregato per i suoi amici; accrebbe anzi del doppio quanto Giobbe aveva posseduto. 11Tutti i suoi fratelli, le sue sorelle e i suoi conoscenti di prima vennero a trovarlo e mangiarono pane in casa sua e lo commiserarono e lo consolarono di tutto il male che il Signore aveva mandato su di lui e gli regalarono ognuno una piastra e un anello d'oro.
12Il Signore benedisse la nuova condizione di Giobbe più della prima ed egli possedette quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine. 13Ebbe anche sette figli e tre figlie. 14A una mise nome Colomba, alla seconda Cassia e alla terza Fiala di stibio. 15In tutta la terra non si trovarono donne così belle come le figlie di Giobbe e il loro padre le mise a parte dell'eredità insieme con i loro fratelli.
16Dopo tutto questo, Giobbe visse ancora centoquarant'anni e vide figli e nipoti di quattro generazioni. 17Poi Giobbe morì, vecchio e sazio di giorni.


COMMENTO

Quanto grande è la Misericordia di Dio! Al pentimento di Giobbe, segue il perdono. Ma la Misericordia di Dio va oltre: invece di punire Elifaz e i suoi due amici, dà loro la possibilità di redimersi mediante i sacrifici e le preghiere di Giobbe.

Giobbe prima di essere provato, viveva bene, non gli mancava nulla: era un uomo saggio, possedeva bestiame, era un uomo molto rispettato dalla sua popolazione. Poi viene la prova dolorosa: la perdita dei beni, dei parenti, la perdita di stima da parte dei suoi conterranei, gli insulti dei suoi amici. Ma Giobbe vive tutto con rassegnazione, senza perdere fiducia nel Signore. Sappiamo che tutto il male che Giobbe ha vissuto era causato da satana al quale Dio aveva dato il permesso di mettere alla prova il Suo servo Giobbe.

Questo libro ci insegna a saper accettare con abbandono e fiducia le sofferenze. A tutti capita di vivere momenti difficili e di perdere tutto. Pensiamo ai terremotati, agli alluvionati e a quanti vivono i disagi provocati dalle calamità naturali. Gente che ha perso tutto dopo una vita di sacrifici. L'esperienza di Giobbe ci insegna ad aver fiducia nel Signore perché presto o tardi le cose cambieranno e in bene se si persevera sulle vie del bene. Giobbe divenne povero, ma non per questo cambiò condotta di vita, anzi rimase uomo umile e onesto.

Dopo la lunga tempesta, ecco finalmente arrivare il sereno per Giobbe. Non solo il Signore lo rimosse dalla condizione nella quale era caduto, ma raddoppiò le ricchezze. Accadrà similmente a ciascuno di noi se sapremo essere fedeli a Dio nonostante tutte le sofferenze e le prove. Non solo il Signore ci riporterà nella gioia ma ce la raddoppierà.

Dio non è venuto per farci soffrire in eterno, ma per farci gioire eternamente. Per raggiungere una gioia maggiore è però necessario passare per le vie della sofferenza, tuttavia queste vie non sono eterne come invece sarà eterna la gioia. Le tribolazioni passeranno, ma Dio non passa e così anche la gioia che è in Lui e che viene donata a noi, non passerà mai. Per questo nella sofferenza, nelle disgrazie, ricordiamoci di questo Libro sapienziale, soprattutto del finale di questo Libro perché ci sia di conforto e speranza. Ma soprattutto ci sia di conforto e speranza la Parola vivente di Dio, Gesù Cristo che dopo essere passato per le vie della croce e della morte, è risuscitato. Il male e la sofferenza passeranno, la gioia e la vita, se saremo fedeli al Signore, non passeranno mai.

sabato 25 giugno 2011

Il Sabato dei Salmi - Salmo 59 (58) - Contro gli empi


Salmo 59

Contro gli empi
[1]Al maestro del coro. Su «Non distruggere». Di Davide.
Quando Saul mandò uomini a sorvegliare la casa e ad ucciderlo.

[2]Liberami dai nemici, mio Dio,
proteggimi dagli aggressori.
[3]Liberami da chi fa il male,
salvami da chi sparge sangue.
[4]Ecco, insidiano la mia vita,
contro di me si avventano i potenti.
Signore, non c'è colpa in me, non c'è peccato;
[5]senza mia colpa accorrono e si appostano.

Svègliati, vienimi incontro e guarda.
[6]Tu, Signore, Dio degli eserciti, Dio d'Israele,
lèvati a punire tutte le genti;
non avere pietà dei traditori.

[7]Ritornano a sera e ringhiano come cani,
si aggirano per la città.
[8]Ecco, vomitano ingiurie,
le loro labbra sono spade.
Dicono: «Chi ci ascolta?».
[9]Ma tu, Signore, ti ridi di loro,
ti burli di tutte le genti.
[10]A te, mia forza, io mi rivolgo:
sei tu, o Dio, la mia difesa.
[11]La grazia del mio Dio mi viene in aiuto,
Dio mi farà sfidare i miei nemici.

[12]Non ucciderli, perché il mio popolo non dimentichi,
disperdili con la tua potenza e abbattili,
Signore, nostro scudo.
[13]Peccato è la parola delle loro labbra,
cadano nel laccio del loro orgoglio
per le bestemmie e le menzogne che pronunziano.

[14]Annientali nella tua ira,
annientali e più non siano;
e sappiano che Dio domina in Giacobbe,
fino ai confini della terra.
[15]Ritornano a sera e ringhiano come cani,
per la città si aggirano
[16]vagando in cerca di cibo;
latrano, se non possono saziarsi.
[17]Ma io canterò la tua potenza,
al mattino esalterò la tua grazia
perché sei stato mia difesa,
mio rifugio nel giorno del pericolo.
[18]O mia forza, a te voglio cantare,
poiché tu sei, o Dio, la mia difesa,
tu, o mio Dio, sei la mia misericordia.

COMMENTO

Anche il Salmo di oggi è una richiesta di aiuto di Davide, circondato dai suoi persecutori, a Dio nel quale si rifugia. Gli ultimi Salmi hanno rappresentato la situazione in cui Davide si trova ad essere perseguitato da Saul e dai suoi uomini che vogliono eliminarlo. Anche oggi vediamo lo stesso contesto con Saul che invia i suoi uomini ad uccidere Davide. In questo contesto, egli si rifugia come sempre nell'Unico Vero Dio che non l'ha mai tradito né mai abbandonato; sa di potersi fidare di Lui e con il cuore si rivolge a Lui affinché lo liberi dalla mano dei persecutori, riversando su quest'ultimi la sua ira. 

Viene molto da pensare leggendo questi versi e soprattutto ci viene da pensare a coloro che oggi si trovano a vivere lo stesso contesto di Davide, cioè perseguitati da uomini che vogliono la loro morte. Pensiamo ai nostri fratelli cristiani d'Oriente che vivono situazioni di grande paura e terrore poiché vi sono davvero uomini che vagano con lo scopo di annientare loro e la loro fede. Ma come Davide, anch'essi hanno la possibilità di rifugiarsi presso Dio e sperare nella Sua Divina Protezione, senza dimenticare quante volte Dio ha steso il Suo braccio per difendere il Suo popolo dalle mani dei nemici. Purtroppo finché il male sarà presente sulla terra, la mano empia dei persecutori non si fermerà mai: la nostra speranza è riposta in Cristo il quale verrà e distruggerà ogni sorta di male e ogni sorta di empietà svanirà per sempre; allora potremo ammirare la grandezza con la quale il Signore è giunto in nostro soccorso, salvandoci dal male e portandoci in eterna gioia e serenità.

venerdì 24 giugno 2011

Siracide - Trentasettesimo appuntamento

Proseguiamo la lettura del Libro del Siracide con il trentasettesimo capitolo:


37

1Ogni amico dice: "Anch'io ti sono amico",
ma esiste l'amico che lo è solo di nome.
2Non è forse un dolore mortale
un compagno e un amico trasformatosi in nemico?
3O inclinazione malvagia, da dove sei balzata,
per ricoprire la terra con la tua malizia?
4Il compagno si rallegra con l'amico nella felicità,
ma al momento della disgrazia gli sarà ostile.
5Il compagno soffre con l'amico per ragioni di stomaco,
ma di fronte al conflitto prenderà lo scudo.
6Non ti dimenticare dell'amico dell'anima tua,
non scordarti di lui nella tua prosperità.

7Ogni consigliere suggerisce consigli,
ma c'è chi consiglia a proprio vantaggio.
8Guàrdati da un consigliere,
infòrmati quali siano le sue necessità
- egli nel consigliare penserà al suo interesse -
perché non getti la sorte su di te
9e dica: "La tua via è buona",
poi si terrà in disparte per vedere quanto ti accadrà.
10Non consigliarti con chi ti guarda di sbieco,
nascondi la tua intenzione a quanti ti invidiano.
11Non consigliarti con una donna sulla sua rivale,
con un pauroso sulla guerra,
con un mercante sul commercio,
con un compratore sulla vendita,
con un invidioso sulla riconoscenza,
con uno spietato sulla bontà di cuore,
con un pigro su un'iniziativa qualsiasi,
con un mercenario annuale sul raccolto,
con uno schiavo pigro su un gran lavoro;
non dipendere da costoro per nessun consiglio.
12Invece frequenta spesso un uomo pio,
che tu conosci come osservante dei comandamenti
e la cui anima è come la tua anima;
se tu inciampi, saprà compatirti.
13Segui il consiglio del tuo cuore,
perché nessuno ti sarà più fedele di lui.
14La coscienza di un uomo talvolta suole avvertire
meglio di sette sentinelle collocate in alto per spiare.
15Al di sopra di tutto questo prega l'Altissimo
perché guidi la tua condotta secondo verità.

16Principio di ogni opera è la ragione,
prima di ogni azione è bene riflettere.
17Radice dei pensieri è il cuore,
queste quattro parti ne derivano:
18bene e male, vita e morte,
ma su tutto domina sempre la lingua.
19C'è l'uomo esperto maestro di molti,
ma inutile per se stesso.
20C'è chi posa a saggio nei discorsi ed è odioso,
a costui mancherà ogni nutrimento;
21non gli è stato concesso il favore del Signore,
poiché è privo di ogni sapienza.
22C'è chi è saggio solo per se stesso,
i frutti della sua scienza sono sicuri.
23Un uomo saggio istruisce il suo popolo,
dei frutti della sua intelligenza ci si può fidare.
24Un uomo saggio è colmato di benedizioni,
quanti lo vedono lo proclamano beato.
25La vita dell'uomo ha i giorni contati;
ma i giorni di Israele sono senza numero.
26Il saggio otterrà fiducia tra il suo popolo,
il suo nome vivrà per sempre.

27Figlio, nella tua vita prova te stesso,
vedi quanto ti nuoce e non concedertelo.
28Difatti non tutto conviene a tutti
e non tutti approvano ogni cosa.
29Non essere ingordo per qualsiasi ghiottoneria,
non ti gettare sulle vivande,
30perché l'abuso dei cibi causa malattie,
l'ingordigia provoca coliche.
Molti sono morti per ingordigia,
chi si controlla vivrà a lungo.


COMMENTO

L'amicizia per funzionare deve anzitutto fondarsi sull'amore. Tutti gli uomini di tutte le generazioni, hanno visto amici passare via nel corso delle loro vite, principalmente perché non tutti sono capaci di amare realmente il prossimo costituendo di fatto un'amicizia parziale che passa. Questa è l'amicizia: amare l'altro senza sperarne di ottenere nulla in cambio. Gli interessi personali causano spaccature in tutti gli ambiti della vita. Dove non c'è Dio non può esserci piena amicizia. Chi è in comunione con Dio si lascia trasfondere dal Suo Amore e un uomo colmo dell'Amore di Dio teme addirittura di fare il male al prossimo tanto comprende quanto è caro un solo uomo agli occhi del Signore, essendo immagine di Dio.

L'ingordigia di cui parla questo brano, ci ricorda le grandi abbuffate che i potenti consumano a scapito dei piccoli di questa terra costretti a consumare materiale non commestibile per placare il senso di fame. L'egoismo uccide, è questo il messaggio che sembra voler trasmettere la parte finale di questo capitolo. Chi mangia eccessivamente si ammala, talvolta muore, ma questo discorso possiamo e dobbiamo vederla in chiave spirituale: l'egoismo uccide perché chi cura sé stesso e non tiene conto del prossimo, non avrà la vita eterna, come ci insegna la parabola del ricco Epulone e il povero Lazzaro. La carità invece nutre non solo chi la riceve ma anche chi la dà, e il nutrimento non è solo materiale, ma soprattutto spirituale. "E' donando che si riceve" disse San Francesco in una preghiera da lui composta. Quanta gioia abbiamo provato ogni volta che abbiamo fatto un dono a qualcuno? Ancor più proveremo gioia se saremo capaci di donare noi stessi agli altri, che sia nel soccorso agli ammalati o donando cibo ai poveri, o incoraggiando i pusillanimi, donando un sorriso ai tristi, la gioia ai depressi. Ci sono svariati modi di fare carità secondo le proprie possibilità.

Gesù è venuto a portarci l'Amore vero, ce l'ha già dato nel Battesimo, l'amore divino che ama andando oltre le possibilità umane. Usiamolo questo amore, fortifichiamolo e aumentiamolo con i Sacramenti, chiediamolo continuamente a Gesù. Solo questo amore può fondare amicizie sincere e sopprimere la fame e il degrado nel mondo.

Soltanto l'Amore che è fondamento di ogni cosa può cancellare l'egoismo, le invidie, le gelosie, le povertà, le guerre. Soltanto Dio può portare il bene e cancellare il male, e Dio entra in noi per entrare nel mondo, per sanare le ferite causate dal peccato.

giovedì 23 giugno 2011

Catechismo della Chiesa Cattolica - XXXI parte

Proseguiamo il nostro percorso volto alla conoscenza del Catechismo della Chiesa Cattolica. Cominciamo la lettura del Capitolo Terzo dedicato al credo nello Spirito Santo: 


CAPITOLO TERZO
 
CREDO NELLO SPIRITO SANTO

683 “Nessuno può dire "Gesù è Signore" se non sotto l'azione dello Spirito Santo” (⇒ 1Cor 12,3). “Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!” (⇒ Gal 4,6). Questa conoscenza di fede è possibile solo nello Spirito Santo. Per essere in contatto con Cristo, bisogna dapprima essere stati toccati dallo Spirito Santo. È lui che ci precede e suscita in noi la fede. In forza del nostro Battesimo, primo sacramento della fede, la Vita, che ha la sua sorgente nel Padre e ci è offerta nel Figlio, ci viene comunicata intimamente e personalmente dallo Spirito Santo nella Chiesa:

Il Battesimo ci accorda la grazia della nuova nascita in Dio Padre per mezzo del Figlio suo nello Spirito Santo. Infatti coloro che hanno lo Spirito di Dio sono condotti al Verbo, ossia al Figlio; ma il Figlio li presenta al Padre, e il Padre procura loro l'incorruttibilità. Dunque, senza lo Spirito, non è possibile vedere il Figlio di Dio, e, senza il Figlio, nessuno può avvicinarsi al Padre, perché la conoscenza del Padre è il Figlio, e la conoscenza del Figlio di Dio avviene per mezzo dello Spirito Santo [Sant'Ireneo di Lione, Demonstratio apostolica, 7].

684 Lo Spirito Santo con la sua grazia è il primo nel destare la nostra fede e nel suscitare la vita nuova che consiste nel conoscere il Padre e colui che ha mandato, Gesù Cristo [Cf ⇒ Gv 17,3 ]. Tuttavia è l'ultimo nella rivelazione delle Persone della Santa Trinità. San Gregorio Nazianzeno, “il Teologo”, spiega questa progressione con la pedagogia della “condiscendenza” divina:

L'Antico Testamento proclamava chiaramente il Padre, più oscuramente il Figlio. Il Nuovo ha manifestato il Figlio, ha fatto intravvedere la divinità dello Spirito. Ora lo Spirito ha diritto di cittadinanza in mezzo a noi e ci accorda una visione più chiara di se stesso. Infatti non era prudente, quando non si professava ancora la divinità del Padre, proclamare apertamente il Figlio e, quando non era ancora ammessa la divinità del Figlio, aggiungere lo Spirito Santo come un fardello supplementare, per usare un'espressione un po' ardita. . . Solo attraverso un cammino di avanzamento e di progressso “di gloria in gloria”, la luce della Trinità sfolgorerà in più brillante trasparenza [San Gregorio Nazianzeno, Orationes theologicae, 5, 26: PG 36, 161C].

685 Credere nello Spirito Santo significa dunque professare che lo Spirito Santo è una delle Persone della Santa Trinità, consustanziale al Padre e al Figlio, “con il Padre e il Figlio adorato e glorificato” (Simbolo di Nicea-Costantinopoli). Per questo motivo si è trattato del mistero divino dello Spirito Santo nella “teologia” trinitaria. Qui, dunque, si considererà lo Spirito Santo solo nell' “Economia” divina.

686 Lo Spirito Santo è all'opera con il Padre e il Figlio dall'inizio al compimento del disegno della nostra salvezza. Tuttavia è solo negli “ultimi tempi”, inaugurati con l'Incarnazione redentrice del Figlio, che egli viene rivelato e donato, riconosciuto e accolto come Persona. Allora questo disegno divino, compiuto in Cristo, “Primogenito” e Capo della nuova creazione, potrà realizzarsi nell'umanità con l'effusione dello Spirito: la Chiesa, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne, la vita eterna.


687 “I segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio” (⇒ 1Cor 2,11). Ora, il suo Spirito, che lo rivela, ci fa conoscere Cristo, suo Verbo, sua Parola vivente, ma non dice se stesso. Colui che “ha parlato per mezzo dei profeti” ci fa udire la Parola del Padre. Lui, però, non lo sentiamo. Non lo conosciamo che nel movimento in cui ci rivela il Verbo e ci dispone ad accoglierlo nella fede. Lo Spirito di Verità che ci svela Cristo non parla da sé [Cf ⇒ Gv 16,13 ]. Un tale annientamento, propriamente divino, spiega il motivo per cui “il mondo non può ricevere” lo Spirito, “perché non lo vede e non lo conosce”, mentre coloro che credono in Cristo lo conoscono perché “dimora” presso di loro [Cf ⇒ Gv 14,17 ].

688 La Chiesa, comunione vivente nella fede degli Apostoli che essa trasmette, è il luogo della nostra conoscenza dello Spirito Santo:

- nelle Scritture, che egli ha ispirato;

- nella Tradizione di cui i Padri della Chiesa sono sono i testimoni sempre attuali;

- nel Magistero della Chiesa che egli assiste;

- nella Liturgia sacramentale, attraverso le sue parole e i suoi simboli, in cui lo Spirito Santo ci mette in comunione con Cristo;

- nella preghiera, nella quale intercede per noi;

- nei carismi e nei ministeri che edificano la Chiesa;

- nei segni di vita apostolica e missionaria;

- nella testimonianza dei santi, in cui egli manifesta la sua santità e continua l'opera della salvezza.

martedì 21 giugno 2011

La Città di Dio - XXIII parte

 Riprendiamo la lettura dell'opera di Sant'Agostino nota come "La città di Dio". Oggi cominciamo la lettura del Libro Terzo dell'opera, dedicato interamente alla rilettura della storia di Roma, sotto un diverso punto di vista... Interessante il modo in cui Sant'Agostino mostra come gli dei non possono assolutamente giudicare gli esseri umani poiché commettono e si compiacciono di commettere immoralità altrettanto gravi:  

Libro terzo

LA STORIA DI ROMA IN UNA VISIONE CRITICA

Criteri di giudizio dei fatti storici (1-12)

1. Ritengo che è stato detto abbastanza nei confronti dei mali morali e spirituali i quali più degli altri si devono evitare e cioè che gli dèi falsi non si sono affatto preoccupati di aiutare il popolo che li adorava affinché non ne fosse schiacciato dal cumulo, ma si adoperarono piuttosto che ne fosse gravato al massimo. Penso che ora si debba parlare di quei mali, i soli che i pagani non vogliono subire, come povertà, malattia, guerra, saccheggio, schiavitù, strage e altri simili di cui ho già parlato nel primo libro. I malvagi ritengono unici mali questi che non rendono malvagi e non si vergognano di essere malvagi fra le cose che valutano come beni proprio essi che così le valutano. Si stizziscono di più se hanno una cattiva villa che una cattiva condotta come se stimare un bene tutte le cose fuorché se stessi sia il più grande bene dell'uomo. Eppure i loro dèi, quando ne era permesso il culto, non impedirono che accadessero loro questi mali, i soli che essi temevano. Prima della venuta del nostro Redentore in luoghi e tempi diversi l'uman genere fu colpito da innumerevoli e alcune perfino incredibili sventure. Eppure se si eccettuano il popolo ebraico e fuori di esso alcuni che in ogni parte della terra per occulto e giusto giudizio di Dio furono degni della grazia divina, il mondo adorava soltanto questi dèi. Tuttavia, per non farla troppo lunga, non parlerò delle gravissime sciagure degli altri popoli nelle diverse regioni. Parlerò soltanto, per quanto attiene a Roma e all'impero romano, cioè alla città in particolare e alle altre che in tutto il mondo furono alleate o soggette, dei mali che subirono prima della venuta di Cristo, quando appartenevano per così dire al corpo dello Stato.


2. Comincio da Troia o Ilio, da cui deriva la stirpe dei Romani perché non si deve tralasciare o evadere l'argomento che ho toccato anche nel primo libro 1. Se dunque Ilio aveva e onorava i medesimi dèi, perché fu vinta, saccheggiata e distrutta dai Greci? Furono fatte pagare a Priamo, dicono, i falsi giuramenti di suo padre Laomedonte 2. Dunque è vero che Apollo e Nettuno prestarono servizio a Laomedonte come salariati? Si narra infatti che promise loro un salario e giurò il falso 3. Mi meraviglio che Apollo presentato come divinatore faticò ad un'opera così grandiosa senza prevedere che Laomedonte non avrebbe mantenuto le promesse. Neanche per Nettuno, suo zio paterno, fratello di Giove e re del mare, era dignitoso essere inconsapevole del futuro. Infatti Omero che, come si dice, visse prima della fondazione di Roma, lo presenta nell'atto di divinare un glorioso avvenire alla stirpe di Enea 4, dai cui posteri è stata fondata Roma. Lo avvolse perfino in una nube perché non fosse ucciso da Achille, sebbene bramasse distruggere dalle fondamenta, come confessa nel testo di Virgilio, le mura di Troia spergiura costruite con le proprie mani 5. Dunque dèi così grandi, come Nettuno e Apollo, senza sapere che Laomedonte avrebbe negato la paga, furono costruttori delle mura di Troia, per i grati e per gli ingrati. Riflettano i Romani se non è più pericoloso riconoscerli come dèi che non mantenere loro le promesse giurate. Lo credette molto probabilmente anche Omero perché presenta Nettuno che combatte contro i Troiani ed Apollo in loro favore, sebbene il mito racconti che furono ambedue offesi dal falso giuramento. Se dunque credono ai miti, si vergognino di adorare simili divinità; e se non credono ai miti, non adducano a pretesto i giuramenti falsi di Troia o si meraviglino che gli dèi punirono gli spergiuri di Troia e amarono quelli di Roma. Per quale ragione infatti la congiura di Catilina ebbe in uno Stato tanto grande e tanto depravato un numeroso gruppo di cittadini che l'azione e la parola nutrivano di falso giuramento o di strage civile 6? Quale altra mancanza insomma se non spergiurare commettevano i senatori, tante volte corrotti nei giudizi ed altrettante il popolo nelle votazioni e negli altri affari che si trattavano nelle sue assemblee? A causa infatti dell'immoralità si conservava l'antico istituto del giuramento, non allo scopo di astenersi dai delitti col timore della religione, ma per aggiungere agli altri delitti anche i giuramenti falsi.


3. Non v'è motivo dunque perché si immagini poeticamente che gli dèi, dai quali, come dicono, fu difeso il dominio di Troia 7, fossero adirati contro i Troiani spergiuri. È chiaro che furono vinti dai Greci più forti. E neanche abbandonarono Troia perché erano indignati per l'adulterio di Paride, come si dice a loro difesa da alcuni. Di solito favoriscono e insegnano i peccati, non li puniscono. All'inizio, come io ho appreso, dice Sallustio, i Troiani che profughi sotto la guida di Enea vagavano senza meta fissa, fondarono Roma e vi si insediarono 8. Se dunque le divinità pensarono di punire l'adulterio di Paride, soprattutto nei Romani o senz'altro anche nei Romani doveva esser punito, perché pure la madre di Enea lo commise. Con quale criterio potevano odiare in Paride quel misfatto se non odiavano nella loro compagna Venere l'atto, per tacere di altri, compiuto con Anchise, da cui aveva avuto Enea? Forse perché uno fu compiuto malgrado lo sdegno di Menelao e l'altro con la condiscendenza di Vulcano? Mi par proprio che gli dèi non siano gelosi delle proprie mogli al punto di accondiscendere ad averle in comune con gli uomini. Si pensa forse che sto schernendo i miti e che non tratto con la dovuta serietà un argomento tanto importante. Dunque, se si vuole, non crediamo che Enea fosse figlio di Venere; lo concedo se crediamo che neanche Romolo lo fu di Marte. Se l'uno, perché non anche l'altro? È forse ammissibile che gli dèi si uniscano a uomini femmine ed è inammissibile che uomini maschi si uniscano alle dee? È dura e piuttosto incredibile la condizione che ciò che per diritto di Venere fu lecito a Marte nell'accoppiamento non fosse lecito nel proprio diritto alla stessa Venere. Ma l'uno e l'altro sono stati confermati da un'autorevole letteratura romana. Cesare a noi vicino non credette di meno di avere per antenata Venere 9 di quel che l'antico Romolo credette di avere per padre Marte.

4. Si dirà: "E tu credi a queste fole?". No, io non ci credo. Infatti anche Varrone, il più dotto dei Romani, lo ammette, sia pure non risolutamente e non decisamente, comunque indirettamente. È utile, egli dice, agli Stati che gli eroi credano, anche se è falso, di essere stati generati dagli dèi. Così l'animo umano, portatore di questa sicurezza, intraprende con maggiore audacia le grandi imprese, le continua con maggior vigore e, data questa sicurezza, le porta a termine con maggior successo 10. Questa opinione di Varrone, citata a senso, come mi è stato possibile con le mie parole, apre, come puoi vedere, una larga falla all'inganno perché ci lascia intendere che si poterono imbastire molte credenze già sacrali e quasi religiose, laddove si pensò che ai cittadini giovassero le menzogne perfino sugli dèi.

5. Ma lasciamo da parte se Venere poté partorire Enea dall'accoppiamento con Anchise o Marte generare Romolo dall'accoppiamento con la figlia di Numitore. In definitiva un problema analogo si rileva anche dalle nostre Scritture, se cioè gli angeli prevaricatori si fossero accoppiati con le figlie dell'uomo. La terra così si popolò di giganti, cioè di grandissimi eroi che nacquero da quell'accoppiamento 11. Quindi per adesso la nostra discussione può riferirsi all'uno e all'altro caso. Se dunque sono veri i fatti che nei loro scrittori si leggono della madre di Enea e del padre di Romolo, per quale motivo potrebbero dispiacere agli dèi gli adulteri degli uomini, quando li sopportano in tutta pace in se stessi? Se poi sono falsi, neanche in tal caso possono adirarsi contro i veri adulteri umani, giacché si compiacciono dei propri adulteri immaginari. Si aggiunge che se non si presta fede all'adulterio per quanto riguarda Marte, allo scopo di non credere neanche quello di Venere, non si può difendere la posizione della madre di Romolo col pretesto dell'accoppiamento col dio. Era una vestale e perciò gli dèi avrebbero dovuto punire più severamente contro i Romani il misfatto sacrilego che contro i Troiani l'adulterio di Paride. Infatti gli antichi Romani sotterravano vive le sacerdotesse di Vesta sorprese nel disonore e invece non condannavano alla pena di morte, ma ad altre pene, le donne adultere. Con maggiore severità appunto proteggevano quelli che ritenevano i santuari del dio che il talamo dell'uomo.

6. Aggiungo un'altra considerazione. Se a quelle divinità dispiacevano i peccati degli uomini al punto di abbandonare Troia alla strage e all'incendio per l'episodio dell'odiato Paride, l'uccisione del fratello di Romolo li avrebbe irritati contro i Romani più gravemente che contro i Troiani il disonore di un marito greco. Li avrebbe irritati di più il fratricidio di una città che sorgeva dell'adulterio di una città che già dominava. E non attiene all'argomento trattato se Romolo comandò di compiere il delitto o se lo compì di propria mano. Molti per sfrontatezza negano il fatto, molti ne dubitano per vergogna, molti non ne parlano per la pena. Ed anche io non voglio trattenermi a investigare accuratamente il fatto attraverso l'esame delle testimonianze di molti scrittori. È noto a tutti che il fratello di Romolo fu ucciso, non da nemici, non da estranei. Se Romolo compì o comandò il delitto, si pensi che egli era il capo dei Romani a maggior diritto di quel che lo fosse Paride dei Troiani. Perché dunque uno, rapitore della moglie altrui, provocò l'ira degli dèi contro i Troiani, e l'altro, uccisore del proprio fratello, attirò la protezione dei medesimi dèi sui Romani? Se poi il delitto fu estraneo all'azione e al comando di Romolo, dato che doveva essere punito, tutta la città ne fu responsabile perché non lo punì e per di più non uccise un fratello ma il padre, che è peggio. Tutti e due infatti furono fondatori ma ad uno non fu consentito di essere re, perché eliminato da un delitto. Non v'è motivo di chiedersi, come penso, quale colpa commise Troia perché gli dèi l'abbandonassero per farla distruggere e quale opera buona compì Roma perché gli dèi la facessero propria dimora per farla prosperare. Questo soltanto c'è, che essendo stati vinti si trasferirono presso i Romani per ingannarli comunque. Anzi rimasero anche a Troia per ingannare, come al solito, i nuovi abitanti di quelle regioni e a Roma riscossero gloria con grandi onoranze esercitando anche più largamente le arti del loro inganno.