martedì 5 luglio 2011

La Città di Dio - XXV parte

Riprendiamo la lettura dell'opera di Sant'Agostino nota come "La città di Dio" e ritroviamo Sant'Agostino nel ribadire fermamente la mancata presenza degli dei nella storia e nei fatti concernenti Roma:

Libro terzo

LA STORIA DI ROMA IN UNA VISIONE CRITICA  


10. Rispondono forse che l'impero romano non si potrebbe incrementare da ogni parte ed essere celebrato con sì grande gloria se non mediante continue guerre che si succedono ininterrottamente? Bella giustificazione! Per essere grande, perché l'impero dovrebbe essere senza pace? Non è forse preferibile nella fisiologia umana avere una piccola statura con buona salute che giungere a una mole gigantesca con continue disfunzioni e, una volta che l'hai raggiunta, non esser sano ma essere afflitto da malattie tanto più grandi quanto più grandi sono le membra? Cosa ci sarebbe di male e non piuttosto molto di bene se persistessero i tempi antichi? Sallustio li ha compendiati con queste parole: Dunque all'inizio i re (questa dapprima fu nella regione la denominazione del potere) furono diversi; alcuni esercitavano la mente, altri il corpo; allora la vita umana si menava senza desiderio smodato; a ciascuno bastavano le proprie cose 19. Forse perché si allargasse un dominio tanto esteso doveva avvenire ciò che Virgilio denunzia? Egli dice: Fino a che un po' alla volta sopravvennero un periodo deteriore e degenere, la violenza della guerra e l'amore del possedere 20. Ma, dicono, i Romani hanno una giustificazione per le grandi guerre intraprese e condotte a termine, giacché li costringeva a resistere ai nemici che li aggredivano con la violenza non il desiderio smodato della lode umana ma la necessità di difendere la sopravvivenza e la libertà. E sia pure così. Infatti dopo che la società, come scrive lo stesso Sallustio, rafforzatasi con le leggi, le istituzioni e i possedimenti sembrava abbastanza prospera e abbastanza fiorente, come avviene per la maggior parte delle cose umane, dalla ricchezza sorse l'invidia. Quindi i re e i popoli vicini cominciarono ad attaccare con la guerra; pochi fra gli amici erano di aiuto, poiché i più per paura si tenevano lontani dai pericoli. Ma i Romani attivi in pace e in guerra si affaccendavano, preparavano, si esortavano a vicenda, fronteggiavano i nemici, difendevano con le armi la libertà, la patria, la famiglia. Poi appena avevano con il valore allontanato i pericoli, portavano aiuto agli amici alleati e si cattivavano le amicizie più col fare che col ricevere i favori 21. Roma si accrebbe convenientemente mediante questa tecnica. Ma sotto il regno di Numa i nemici aggredivano egualmente e attaccavano con la guerra perché si avesse una pace così lunga, ovvero non si compiva alcuna azione militare perché la pace potesse continuare? Se infatti anche in quel tempo Roma era provocata con guerre e non si resisteva alle armi con le armi, i sistemi usati per tenere quieti i nemici, sebbene non sconfitti in combattimento e non atterriti dalla violenza di Marte, si dovevano usare per sempre e Roma avrebbe dominato sempre tranquilla con le porte di Giano chiuse. Che se questo stato di cose non fu in suo potere, dunque Roma non ebbe la pace fino a che lo vollero i suoi dèi ma fino a che lo vollero i circonvicini che non li attaccarono con la guerra; a meno che simili dèi non si arroghino di vendere a un uomo ciò che un altro ha voluto o non voluto. Importa infatti fino a qual punto sia concesso a questi demoni di atterrire o stimolare le cattive volontà con la propria perversità. Se sempre lo potessero e per un occulto superiore potere non si avesse, in opposizione al loro tentativo, un effetto diverso, avrebbero sempre in loro potere le paci e le vittorie militari che quasi sempre avvengono mediante determinazioni dell'animo umano. Tuttavia che questi fatti avvengono contro le disposizioni degli uomini lo ammettono non solo le favole che falsano molte cose e indicano o significano appena qualche cosa di vero, ma anche la stessa storia romana.

11. Non per altro potere l'Apollo di Cuma, come si venne a sapere, pianse per quattro giorni mentre si combatteva la guerra contro gli Achei e re Aristonico 22. Gli aruspici atterriti dal prodigio ritennero che la statua si dovesse gettare in mare. I maggiorenti di Cuma s'interposero informando che un prodigio simile si era verificato nella medesima statua anche durante la guerra contro Antioco e in quella contro Perseo e poiché si ebbe un esito felice per i Romani attestarono che per delibera del senato erano stati mandati doni al loro Apollo. Allora gli aruspici convocati diedero, come più esperti, il responso che il pianto della statua di Apollo era di buon auspicio per i Romani perché la colonia cumana era greca e il pianto di Apollo significava lutto e sconfitta per la regione, da cui era stato importato, cioè per la stessa Grecia. Subito dopo si ebbe la notizia che re Aristonico era stato vinto e fatto prigioniero e Apollo non voleva certamente che fosse vinto, se ne doleva e lo dava a vedere perfino con le lacrime della propria statua. E per questo non del tutto a sproposito il comportamento dei demoni viene descritto nelle composizioni verosimili, sebbene mitiche, dei poeti. Infatti in Virgilio Diana provò dolore per Camilla, ed Ercole pianse per Pallante che stava per morire 23. Forse per questo Numa Pompilio, sovraccarico di pace, ma non sapendo e non domandandosi chi è che la dava, pensò nella sua inoperosità a quali dèi affidare la difesa della salvezza e del regno di Roma. Non sapeva che l'unico vero onnipotente sommo Dio provvede alle cose del mondo. Rifletteva inoltre che gli dèi di Troia importati da Enea non avrebbero potuto conservare a lungo il regno di Troia e di Lavinio fondato dallo stesso Enea. Ritenne opportuno allora di procacciarsi altri dèi da usare o come custodi dei fuggitivi o come difensori degli invalidi oltre ai primi che erano passati a Roma con Romolo o che sarebbero passati in seguito con la distruzione di Alba.

12. Tuttavia Roma non si degnò di essere contenta dei molti culti religiosi che vi istituì Pompilio. Non aveva ancora il grandissimo tempio di Giove; fu re Tarquinio a costruire il Campidoglio 24. Esculapio venne da Epidauro a Roma 25 allo scopo di esercitare, come medico espertissimo, la sua arte con gloria maggiore nella città più illustre. Venne da Pessinunte anche la madre degli dèi non saprei da quale stirpe 26; era indegno infatti che quando già suo figlio dominava sul colle capitolino, lei fosse ancora nascosta in una località poco conosciuta. Tuttavia se è madre di tutti gli dèi, non solo è venuta a Roma dopo alcuni suoi figli ma ne ha preceduti altri che l'avrebbero seguita. Mi fa un po' meraviglia che proprio lei abbia partorito Cinocefalo perché questi venne dall'Egitto molto più tardi. Se poi anche la dea Febbre è nata da lei, lo decida Esculapio, suo pronipote; ma da qualunque connubio sia nata, gli dèi stranieri non oseranno, penso, considerare oscura una dea cittadina romana. Dunque Roma fu posta sotto il patrocinio di tanti dèi. E chi potrebbe contarli? Indigeni e stranieri, celesti e terrestri, sotterranei e marini, delle fonti e dei fiumi e, come dice Varrone, legittimi e spuri, e di tutti i tipi di dèi maschi e femmine come negli animali 27. Roma dunque posta sotto la protezione di tanti dèi non avrebbe dovuto essere duramente colpita dalle grandi e orribili sventure, come quelle che fra tante citerò in seguito. Col fumo della sua grandezza come con un segnale aveva radunato troppi dèi a difesa. Istituendo e offrendo ad essi templi, altari, sacrifici e sacerdoti offendeva il sommo vero Dio a cui soltanto si devono questi onori debitamente compiuti. Ed era più felice finché visse con un numero minore di essi; ma quanto maggiore divenne, come una nave più grande che imbarca più marinai, pensò di dover procurarsene di più. Non si fidava, credo, che quei pochi con i quali aveva tenuto una condotta abbastanza onesta, se confrontata con una moralità più bassa, fossero sufficienti a soccorrere la sua grandezza. Dapprima infatti sotto gli stessi re, eccetto Numa Pompilio di cui ho parlato dianzi, vi fu il grande male della lotta dovuta alla discordia che indusse a far uccidere il fratello di Romolo.


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