mercoledì 31 agosto 2011

Verità della Fede - XXXI parte

Tornano gli approfondimenti sulle "Verità della Fede" attraverso le attente analisi di Sant'Alfonso Maria de' Liguori. Oggi il Santo Vescovo, Fondatore dei Redentoristi e Dottore della Chiesa con le sue osservazioni ci aiuta a comprendere che l'anima dell'uomo è immortale. Inoltre vedremo parlare anche dell'anima delle bestie. Vedremo anche confutare le parole degli empi e confermare invece le parole dei saggi che giustamente ritenevano l'anima essere immortale. Un itinerario interessante anche per conoscere meglio la nostra natura spirituale:



Verità della fede

di Sant'Alfonso Maria de' Liguori

PARTE SECONDA

CONTRO I DEISTI CHE NEGANO LA RELIGIONE RIVELATA

CAP. XVIII.

Dell'immortalità dell'anima.

1. Vogliono molti deisti, che l'anima umana non è immortale, ma che muore insieme col corpo. Ecco come parla il Montaigne ne' suoi Saggi8La morte è una cosa troppo momentanea, un quarto d'ora di pentimento, senza conseguenza, senza danno, non merita precetti particolari. Da un tal sentimento non si allontanò il signor di Saint-Evremond9, il quale, riferendo quel che scrisse Tacito d'un tal Petronio, che stando in morte attendeva ad ascoltare certi versi piacevoli che gli si recitavano, loda l'indifferenza di questo miserabile, che moriva senza alcuna cura della vita futura10. Neppure lontano dallo stesso sentimento sarà stato il signor Voltaire, mentre dicea che non ripugnava di dire che l'anima sia una sostanza non distinta dal corpo, consistendo ella in una organizzazione materiale più sottile, la quale già si scioglie in morte corrompendosi il corpo.

2. Ma dirà il Voltaire che di questa opinione sono stati ancora i padri della chiesa, come Tertulliano e s. Ireneo, i quali teneano esser l'anima una sostanza materiale. Non ha dubbio che questi padri in quei tempi antichi, in cui le cose metafisiche erano poco ben discusse, tennero questa erronea sentenza, che l'anima fosse una sostanza composta d'una materia eterea sottilissima; ma essi diceano che una tal materia era distinta e indipendente dal corpo organizzato, in modo tale ch'ella sussisteva da sé, onde in morte il solo corpo si corrompea, ma non già l'anima, che come di natura diversa restava immortale. I deisti all'incontro, volendo che l'anima sia della stessa materia del corpo organizzato, necessariamente han da dire che sia mortale, come è mortale il corpo.

3. È già errore contro la fede il dire che le anime nostre sieno mortali, siccome espressamente fu dichiarato dal concilio lateranese v. sess. 8. sotto Leone X., ove fu detto: Damnamus omnes asserentes, animam intellectivam mortalem esse, et hoc in dubium vertentes; cum illa, non solum per se et essentialiter existat, verum et immortalis sit. E ciò fu prima insegnato dal concilio VI. act. 28. e dal concilio VII. act. 1. Sta espresso poi nelle divine scritture, che le anime umane non muoion, come muore il corpo. Abbiamo ne' Maccabei, che Giuda Maccabeo fece offerire sacrificj per le anime de' suoi soldati defunti: Duodecim millia drachmas argenti misit Ierosolymam offerri pro peccatis mortuorum sacrificium, bene et religiose de resurrectione cogitans, dicendo: Sancta ergo et salubris est cogitatio pro defunctis exorare, ut a peccatis solvantur1. Abbiamo di più in s. Matteo le parole di Gesù Cristo: Nolite timere eos, qui occidunt corpus, animam autem non possunt occidere: sed potius timete eum, qui potest et animam et corpus perdere in gehennam2. E nello stesso s. Matteo al capo 17. abbiamo di più che sul monte Taborre apparvero Mosè ed Elia a Pietro, Giacomo e Giovanni3.

4. Ma vediamo ora cosa oppongono i deisti contro queste scritture. Oppongono per 1. il testo dell'Ecclesiaste, ove si dice: Idcirco unus interitus est hominis, et iumentorum, et aequa utriusque conditio: sicut moritur homo, sic et illa moriuntur: similiter spirant omnia, et nihil habet iumento amplius: cuncta subiacent vanitati, et omnia pergunt ad unum locum: de terra facta sunt, et in terram pariter revertuntur4. Ecco, dicono i deisti, che l'uomo ha la stessa condizione delle bestie: siccome quelle sono mortali, così mortale è anche l'uomo. Ma come bene avvertono san Girolamo, s. Bonaventura, Albino ed altri molti, qui non si fa menzione di anima ragionevole, la quale non è fatta di terra; ma si parla solamente del corpo, il quale, perché è fatto di terra, come son fatti i corpi delle bestie, perciò dicesi che gli uni e gli altri ritornano ad esser terra, de terra facta sunt, et in terram pariter revertuntur. Quindi il Savio per metterci avanti gli occhi la vanità de' beni della vita presente (cuncta subiacent vanitati) dice che siccome muoiono le bestie, muore l'uomo; ma non dice che muore l'anima dell'uomo.

5. Oppongono per 2. il testo al verso 21. del capo 3. che immediatamente siegue alle parole riferite: Quis novit, si spiritus filiorum Adam ascendat sursum, et si spiritus iumentorum descendat deorsum? Cioè a corrompersi nella terra. Alcuni interpreti applicano queste parole ad un empio che parla. Altri meglio non però, come il Calmet, Du-Hamel ec. dicono che qui Salomone muove solamente il dubbio se l'anima dell'uomo sia immortale o mortale, come quella delle bestie, e poi lo risolve al cap. 12. v. 7. ove dichiara che nella morte dell'uomo il corpo ritorna ad esser terra, ma lo spirito ritorna a Dio che l'ha creato: Et revertatur pulvis in terram suam unde erat, et spiritus redeat ad Deum, qui dedit illum; con che spiegasi chiaramente che l'anima resta a vivere dopo la morte del corpo.

6. Oppongono per 3. un altro testo della sapienza: Exiguum, et cum taedio est tempus vitae nostrae... et post hoc erimus tanquam non fuerimus etc. Cinis erit corpus nostrum, et spiritus diffundetur tanquam mollis aer. Sap. 2. 1. et seq. Ma qui anche è chiara la risposta; poiché Salomone mette queste parole in bocca agl'increduli: Dixerunt enim cogitantes apud se non recte. Exiguum etc. come sopra ib. v. 1. Ed appresso soggiunge al v. 21. Haec cogitaverunt, et erraverunt; excaecavit enim illos malitia eorum... nec iudicaverunt honorem animarum sanctarum. Quoniam Deus creavit hominem inexterminabilem. Di più l'empio Collins nel suo infame libro: La nuova libertà di pensare, obbietta un altro testo dell'Ecclesiaste nel capo IX. al vers. 5. , ove si dice: Viventes enim sciunt se esse morituros; mortui vero nihil noverunt amplius, nec habent ultra mercedem, quia oblivioni tradita est memoria eorum. Ma che mai il signor Collins può dedurre a suo pro da questo testo? Il Savio in questo luogo parla della sola vita presente, onde dice che i morti niente più sanno, cioè han perduta la cognizione che aveano prima quaggiù de' beni di questo mondo, col quale han lasciato di aver parte, come soggiungesi ivi nel verso 6. seguente, nec habent partem in hoc seculo. Di più oppone il verso 10. dello stesso capo: Quodcumque facere potest manus tua, instanter operare; quia nec opes, nec ratio, nec sapientia, nec scientia erunt apud inferos, quo tu properas. Ed in ciò anche la risposta è chiara, e si spiega il tutto con quel passo del vangelo: Venit nox, quando nemo potest operari1. In somma vuol dire il Savio che dopo la morte non vi è più tempo di operare per acquistar meriti per la vita eterna, né vi è da rendersi nuova ragione de' conti, né vi è sapienza, né sperienza per provvedere al proprio bene, perché allora quel che è fatto, è fatto; e perciò soggiunge, che quel bene che quaggiù possiamo fare, lo facciamo subito senza dimora. Oppongono ancora il testo dell'apostolo: Quis (Deus) solus habet immortalitatem2. Si intende che Iddio ha l'immortalità da sé, ma l'uomo ha bisogno che Dio gliela conservi.

7. Ma, precisa l'autorità delle scritture, la stessa ragion naturale persuade che l'anima ragionevole dell'uomo abbia l'immortalità, non già essenziale, perché questa compete solo a Dio, ma naturale. Il signor Voltaire dice chela fede ci comanda credere l'anima immortale, ma che ciò non si prova colla ragione. Questo è affatto falso, perché tal verità con più ragioni chiaramente si prova. E primieramente si prova dal vedere, che se l'anima perisse col corpo, non vi sarebbe in Dio né provvidenza né giustizia. Non vi sarebbe già in Dio provvidenza. Dice Epicuro che l'anima dell'uomo non ha altro destino che di animare il corpo; ma in ciò Epicuro non troverà chi lo seguiti, credendo che l'anima la quale è molto più nobile del corpo, dotata dalla natura di mente e di ragione, non abbia altro destino che di servire al corpo che tra breve ha da ridursi in fracidume e polvere. No, Iddio ha creato l'uomo affinché lo serva ed ami nella vita presente con ubbidire alle sue leggi, e perciò gli ha donata un'anima ragionevole creata a sua immagine. Or se le anime finissero colla morte del corpo, ecco che Dio, non assegnando egli dopo questa vita né premio agli ubbidienti, né castigo a' trasgressori, poco avrebbe provveduto a conseguire il fine, per cui ha creati gli uomini, cioè che essi in questa vita attendessero ad esercitar le virtù per la speranza de' beni lor preparati, ed a fuggire i vizj per il timore delle pene lor minacciate nella vita futura. Quindi scrisse s. Giustino, parlando specialmente delle pene che hanno i reprobi nell'altra vita: Hoc si non sit, neque Deum esse; aut si sit, nihil illi curae esse res humanas, atque nec virtutem esse, neque vitium1. Oltreché, come dicemmo nel capo antecedente, se Dio avesse create mortali le anime umane, avrebbe amate più le bestie, che gli uomini. Giacché le bestie su questa terra sarebbero state più felici di noi, poiché elle hanno maggior piacere ne' diletti di senso, ed all'incontro sono esenti dalle passioni d'animo, dai rimorsi di coscienza e dai timori del futuro.

8. Inoltre, se le anime nostre fossero mortali, non vi sarebbe in Dio giustizia, perché gli empj sarebbero contenti (almeno si stimerebbero contenti) nel soddisfare i loro appetiti disordinati, senza riceverne pena; ed i santi resterebbero afflitti col mortificare i loro sensi, senza riceverne premio. Tommaso Hobbes nega l'immortalità delle anime, perché nega esservi differenza tra il bene e il male morale; e nega questa differenza, perché nega Dio. Ma qui non intendiamo parlare cogli atei suoi pari, de' quali parlammo nella prima parte, ove ben dimostrammo esservi Dio creatore e conservatore del tutto, parliamo co' deisti che confessano esservi questo Dio saggio, che non opera in vano, e giusto, che rimunera le virtù, e punisce i vizj. Or avendo egli dotato l'uomo di ragione e di libertà, non già in vano, ma affinché l'uomo operi secondo la ragione, per necessità dee giudicarsi che ha da esservi bene e male morale, virtù e vizio: le azioni dell'uomo fatte secondo la ragione, sono virtuose: le azioni fatte contro la ragione, sono viziose. Posto ciò, dee esservi un'altra vita per gli uomini, e perché? Perché Dio è giusto, e non lascia alcun atto virtuoso senza mercede, né alcun vizioso senza supplicio. All'incontro in questa vita veggonsi tanti malvagi provveduti di ricchezze, di piaceri, di onori, e tanti buoni poveri, afflitti e disprezzati. Dice san Giovanni Grisostomo che se nell'altra vita non vi fosse giudizio, ove si rimunera la virtù, e si castiga il vizio, Iddio non sarebbe giusto; e se Dio non fosse giusto, non vi sarebbe più niente, né Dio, né altra verità che ci insegna la fede, e per conseguenza non vi sarebbero più né virtù né vizj: Si non est iudicium, Deus non est iustus: si non est iustus, temere ferentur omnia; nihil est virtus, nihil vitium2.

9. Né vale il dire, come diceano gli stoici, che il piacere che porta seco la stessa virtù, e la pena che seco porta il vizio, sono il premio de' buoni e il castigo de' malvagi. Poiché tal premio o tal pena verrebbe a noi da noi stessi; ma essendo che Dio è quegli che ci comanda le opere buone, e ci vieta le male, da Dio e non da noi debbono pervenirci le mercedi e le pene. Oltreché molto scarsa sarebbe la rimunerazione, se Iddio ad un giusto che fa un'azione buona molto difficile, altra mercede non desse che il solo piacere d'averla fatta. I martiri non riceverebbero alcun premio della loro morte. Si aggiunge che a rispetto de' buoni, i travagli di questa vita, come sono le infermità, le persecuzioni, le perdite delle robe, de' parenti o degli amici, e specialmente le pene interne, i timori della dannazione eterna, le tentazioni dell'inferno, le angustie della coscienza, sono tante e tali, che alle volte superano di gran lunga il godimento che reca la virtù. Ond'è che se non avessero altro premio nell'altra vita, resterebbero senza ricompensa. All'incontro per li cattivi poco sarebbe sufficiente il castigo del rimorso che provano dopo il loro peccato. Tanto più che ne' malvagi quanto più crescono le iniquità, tanto manca il rimorso. È vero che ciò avviene per loro maggior castigo; ma se fosse vero che l'anima finisse colla morte del corpo, qual giustizia sarebbe il diminuir la pena, a chi accresce la colpa?

10. L'empio autore del libretto intitolato: L'anima e sua immortalità, dice che i buoni sono ricompensati dal testimonio della propria coscienza, o dalla stima degli altri uomini; ed i malvagi puniti dall'ignominia e dai castighi quando vengono scoperti. Oh che bel discorrere! Dice dunque che i buoni sono ricompensati dal testimonio della propria coscienza. Concedo che dal testimonio della coscienza sono alquanto consolati, ma non ricompensati, perché la pace di coscienza che in questa terra godono i buoni, non è mai piena, ma sempre è intorbidata dal timore di non trovarsi in grazia di Dio per le colpe commesse, almeno occulte. Sunt iusti, dice il Savio, atque sapientes, et opera eorum in manu Dei; et tamen nescit homo, utrum amore an odio dignus sit; sed omnia in futurum servantur incerta1. Vuole il Signore che tutti i suoi servi vivano quaggiù con questo timore, acciocché si conservino umili. Era stato s. Paolo dichiarato da Gesù Cristo per suo vaso di elezione, e pure temea dicendo: Nihil enim mihi conscius sum, sed non in hoc iustificatus sum; qui autem iudicat me, Dominus est2. Sicché la buona coscienza in questa terra non è la felicità, ma una speranza, o al più una caparra della felicità, accompagnata sempre dall'incertezza che molto crucia gli amanti di Dio. Oltreché poi, dovendo l'uomo per meritare la vita eterna sottoporre la carne a patire, non possono anche i santi non sentirne la pena. S. Agostino parlando del patire de' santi, dice che la pena auget meritum patientiae, non aufert vocabulum poenae3. Ecco come parla l'apostolo della ricompensa che Iddio rende al giusto: Qui reddet unicuique secundum opera eius. Iis quidem qui secundum patientiam boni operis... incorruptionem quaerunt, vitam aeternam etc.4. Come dunque i godimenti di questa vita possono formare il premio delle virtù de' santi, se la pazienza che essi hanno nel soffrire le pene della vita presente è quella che merita la mercede nella vita futura? Ah no, che se mai i giusti non avessero altro premio delle loro virtù, che i godimenti di questa vita, sarebbero essi, dice lo stesso apostolo, gli uomini più infelici di tutti gli altri, benché infedeli ed empj: Si in hac vita tantum in Christo sperantes sumus, miserabiliores sumus omnibus hominibus5. L'empio Manete voleva che il suo Dio malo per la sua innata iniquità e per odio che porta agli uomini, godesse in affliggerli coi mali di questa vita; ma il nostro Dio, che è tutto bontà, se ci tribola colle calamità, non lo fa per odio, ma per amore che ci porta, affinché noi colla pazienza ci acquistiamo maggior merito per la vita eterna.

11. Dice l'autor mentovato di sopra che i buoni almeno sono ricompensati dalla stima degli altri uomini. Dunque la stima degli altri uomini basterà a ricompensare le virtù di un giusto? Primieramente dov'è che le virtù di un uomo dabbene siano sempre stimate dai mondani? Quanti sono odiati nel mondo, vilipesi e perseguitati, appunto perché amano la giustizia? E la ricompensa di costoro qual'è? Ma la vera risposta si è, che la stima degli uomini non può esser mai la ricompensa d'un vero cristiano. I veri discepoli di Gesù Cristo non ambiscono stima ed onore mondano, anzi si accorano allorché veggonsi stimati dagli uomini: essi amano la vita nascosta e i disprezzi per rendersi simili al loro maestro, che volle su questa terra vivere e morire così disprezzato.

12. Dice di più il suddetto autore, che i malvagi sono puniti dall'ignominia e dai castighi, quando vengono scoperti. Basterà dunque a punire un empio l'ignominia che soffre nell'essere scoperto il suo misfatto? Ma qual degno castigo sarà questo per coloro che si gloriano delle loro iniquità, le quali non rare volte più presto che ignominia, trovano applauso e lode appresso i cattivi, de' quali più abbonda il mondo? Dice: quando vengono scoperti. Dunque se questi malvagi non saranno scoperti, per essere i loro delitti affatto occulti, essi non riceveranno alcuna pena per quelli? Ma no, che verrà un tempo, in cui l'eterno giudice scoprirà egli queste empietà più nascoste, illuminabit abscondita tenebrarum,e saprà punirle come meritano. Ma proseguiamo le prove dell'immortalità.

13. Inoltre si prova l'immortalità dell'anima dal desiderio che ogni uomo ha di esser pienamente e per sempre felice. Epicuro dice che questa felicità sta nel godere i piaceri terreni; ma l'esperienza ci dimostra che tutti i beni della terra, perché son finiti, non giungono ad empire il cuore dell'uomo che desidera un bene infinito. Ecco Salomone, che quantunque superasse in ricchezza e gloria tutti i re della terra, e non lasciasse di prendersi ogni piacere che desiderava, pure non si chiama contento, anzi esclama che ogni cosa è vanità ed afflizione di spirito: Universa vanitas et afflictio spiritus1. Or se questo desiderio di una piena felicità è comune in tutti gli uomini, egli è naturale, e se è naturale, proviene da Dio ch'è l'autor della natura. Ma la natura nihil agit frustra (è massima di tutti i filosofi); e Dio non è tiranno, egli è bontà per essenza. Se Dio desse all'uomo il desiderio d'una felicità perfetta, che l'uomo poi non potesse mai conseguire, ella sarebbe una maggior tirannia, che il presentare un vaso d'acqua gelata ad un sitibondo, non già per contentarlo, ma per vederlo tormentato dalla sete. Mentre dunque Iddio c'infonde la brama d'esser perfettamente felici, dobbiam certamente credere che ci tien preparata questa felicità perfetta nella vita futura, posto che nella presente gli siamo fedeli in servirlo ed amarlo.

14. Ma no, dice l'autore della Nuova libertà di pensare pag. 106, questo desiderio della piena felicità non è da Dio; egli è una illusione del nostro amor proprio. Ma bisogna distinguere, amor proprio retto, ed amor proprio disordinato. S'egli intende parlare dell'amor proprio retto, ch'è l'amore del proprio e vero bene, quest'amore non è illusione, ma è dettame della stessa natura, ordinato e necessario, che inclina ogni oggetto ad essere, a ben essere, ed a sempre essere. Se poi intende dell'amor proprio disordinato, questo non può essere mai causa del desiderio della felicità compita; perché questa felicità compita non può conseguirsi senza vincere ed abbattere questo stesso amore disordinato.

15. Di più si prova l'immortalità dell'anima dalla provvidenza che hanno gli uomini delle loro cose per il tempo futuro dopo la morte, onde scrisse Cicerone: Omnibus cura est, quae post mortem futura sunt2. Di più il rimorso della coscienza, che anche dopo i delitti più occulti ci affligge e ci atterrisce, finché viviamo, ben ci fa intendere che ogni colpa dovrà esser punita o in questa o nell'altra vita. Di più dice il signor Collins nella sualibertà di pensare pag. 100. che i magistrati han favorita questa opinione (dell'immortalità) a fin di raffrenare i malvagi col timor de' castighi dell'altra vita. E gli fa consonanza il Voltaire, confessando che il bene comune degli uomini richiede che si creda l'anima immortale. Dunque il Voltaire e tutti i magistrati del mondo han creduto essere necessario al bene comune il credere l'immortalità dell'anima, e Iddio non v'ha pensato?

16. La ragione poi più principale che persuade esser l'anima immortale, è perché ella è spirituale. Già si provò chiaramente nella prima parte al capo 5. che l'anima non è materia, ma è puro spirito; altrimenti non potrebbe aver mente e pensiero. Or se l'anima è spirituale, ella è anche attualmente immortale. La ragione n'è addotta da un gentile, qual fu Cicerone, che parlò col solo lume naturale: Cum simplex animi natura esset, neque haberet in se quidquam admixtum dispar sui atque dissimile, non posse eum dividi: quod si non possit, non posse interire3. Essendo dunque l'anima sostanza semplice e spirito, ella non ha parte atta a dividersi, e perciò non ha principio di corruzione che possa distruggerla. È vero che Dio potrebbe distruggerla ed anche annichilarla, se volesse; ma essendo Iddio l'autor della natura, ed avendo egli creata l'anima di sua natura immortale, non soggetta ad alcun principio di corruzione, dobbiamo ragionevolmente credere per certo che voglia conservarla immortale, secondo la natura che le ha data. Il che maggiormente si conferma dal vedere il fine e il desiderio che le ha impresso d'una perfetta felicità, la quale senza l'immortalità non potrebbe esser mai perfetta. In quanto poi a' bruti, perché questi non sono fatti che per servire all'uomo, ben può dirsi che, quantunque le loro anime fossero spirituali (come dirò qui appresso), dopo che han compito il loro officio, restino distrutte colla morte del corpo.

17. Dice l'incredulo: anche le bestie hanno l'anima spirituale, mentre si vede che elle hanno la cognizione di più cose particolari, e specialmente la memoria de' beneficj e de' maltrattamenti ricevuti: dunque anche le anime delle bestie saranno immortali. A ciò si risponde da alcuni che le bestie sono puri automi e pure macchine materiali senza spirito. Da altri si tiene che sono composte d'una sostanza sanguigna ripiena di spiriti, ma spiriti totalmente materiali. Da altri si tiene che il bruto abbia l'anima materiale insieme e sensitiva, sicché la sua sostanza sia tra mezzo allo spirito ed alla materia; ma ciò implica contraddizione, che una cosa sia insieme materia e spirito: s'ella ha parti, è materia, se non ha parti, è spirito; e perciò l'anima del bruto o ha da esser materia o spirito. Da altri finalmente si tiene l'opinione (la quale oggi è la più comune, ed è ancora la più probabile) che i bruti anche hanno vero spirito, siccome l'ammise già anche s. Agostino, dicendo che le bestie hanno lo spirito, ma non già la mente e la ragione, come l'uomo: Omnis mens spiritus est, non autem omnis spiritus mens est; qui(Deus) et animae irrationali dedit memoriam, sensum, appetitum; rationali autem insuper mentem, intelligentiam, voluntatem1. Dunque, diranno, anche gli spiriti de' bruti saranno immortali; e dopo la morte questi dove vanno? O che cosa se ne fa? Che cosa se ne faccia, risponde il Calmet, noi non lo sappiamo né possiamo saperlo. Mi piace ben anche la risposta di altri, i quali dicono che gli spiriti de' bruti dopo la morte si disfanno togliendo Iddio il suo concorso a conservarli; e la ragione è molto probabile, perché il Signore ha creati i bruti a solo fine di servire all'uomo, e gli ha creati senza uso di ragione; e perciò, non essendo essi capaci di merito, e per conseguenza né di premio né di pena, allorché han compito il loro officio di servire all'uomo, Dio lascia di conservarli, e così restano disfatti. L'uomo all'incontro, essendo creato per la gloria d'un Dio eterno, ed essendo da Dio dotato di ragione, e per conseguenza capace di merito e di demerito, che non vediamo rimunerato o castigato abbastanza in questa vita, non solo per ragion di fede, ma anche per una sana natural filosofia dobbiamo crederlo immortale, e che non muoia come le bestie. Oh la gran sapienza degli spiriti forti, che dopo essere stati creati da Dio immortali, studiano per potersi credere mortali simili a' bruti, a fin di vivere da bruti senza legge e senza ragione.

18. Dice il Voltaire: «Le bestie hanno gli organi stessi che ha l'uomo e le stesse percezioni; hanno una specie di memoria, e combinano alcune idee. Se Dio non ha potuto animar la materia e darle sentimento, convien l'una delle due, o che abbiano le bestie un'anima spirituale, o che sieno pure macchine. Le bestie non sono pure macchine, e non possono secondo voi aver un'anima spirituale: dunque a dispetto vostro non resta altro a dire, che Iddio ha data agli organi delle bestie, che sono materia, la facoltà di sentire e di conoscere1. » Ma erra il signor Voltaire, perché noi non diciamo che le bestie non possono essere pure macchine, né che non possono aver anima spirituale; ma diciamo di non saperlo, siccome neppure egli lo sa; ma non perché non sappiamo ciò, possiamo negare quel ch'è certo secondo la rivelazione e la ragione, che l'anima dell'uomo, la quale, oltre il senso e la cognizione, ha la mente e la ragione, sia spirituale ed immortale.

19. Dalle sole ragioni dunque che si hanno dal lume della natura, si forma una certezza troppo chiara dell'immortalità delle nostre anime. Onde giustamente il Leibnizio2 riprende Puffendorfio, il quale dice che la sola parola divina può accertarci di tal verità. Poiché risponde Leibnizio, che da una parte il consenso comune delle genti, colla brama naturale che noi abbiamo d'esser immortali, e dall'altra il vedere che nella vita presente non ricevono degno premio i buoni né degno castigo i malvagi, precisa la fede, formano una piena dimostrazione che le anime nostre sieno immortali.

20. Si aggiunge a tutto ciò il sentimento comune ch'ebbero ed hanno i popoli antichi e moderni anche idolatri, che l'anima sia immortale. Così insegnarono i primi filosofi. Onde scrisse Cicerone, parlando di tal punto: Neque me solum ratio, ac disputatio impulit, ut ita crederem, sed nobilitas etiam summorum philosophorum et auctoritas3. In fatti così insegnò Socrate, la cui dottrina poi seguendo Platone suo discepolo, scrisse che l'anima divisa dal corpo, in quanto alla sua sostanza resta tutto quello ch'è: Separata anima a corpore est ipsum id quod est4. Lo stesso scrissero Diogene e Pitagora con Ferecide presso Cicerone5. Lo stesso scrisse Seneca, e con maggior chiarezza, dicendo che l'anima si sforza di andare al suo principio, ed ivi trova il suo eterno riposo: Animus nititur, unde dimissus est: ibi illi aeterna requies manet6. Ed altrove parlando dell'infelicità del corpo nell'esser afflitto da tanti morbi e miserie, dice che l'anima è eterna, e non è soggetta ad esser distrutta: Animus quidem ipse sacer et aeternus est, et cui non possit iniici manus.7.

21. Aristotile benché sembra che in qualche luogo ne dubiti, nondimeno in più luoghi confessa l'immortalità dell'anima. In un luogo dice che l'anima potest separari a corpore, sicut perpetuum a corruptibili8. Sicché secondo il suo sentimento il corpo si corrompe, ma lo spirito diviso dal corpo resta eterno. Di più in altro luogo scrisse che l'anima ragionevole ha un'essenza che non si genera, né si corrompe: Mens videtur ingigni essentia quaedam existens, neque corrumpi9. Di più sentiva che i morti si consolano alquanto colle prosperità degli amici, e sentono le loro disgrazie, ma non tanto che quelle da felici li rendessero infelici: Ita tamen ac tantum, ut neque felices reddere infelices valeat10.

22. Parlando poi dei popoli antichi, attesta Cicerone che la loro generale credenza era che l'uomo vivesse dopo la morte. Ed in altro luogo scrive: Neque assentior iis, qui nuper disserere coeperunt cum corporibus simul animos interire; plus ad me antiquorum auctoritas valet11. Erodoto12 attesta che gli egiziani credeano già che l'anima fosse immortale; e perciò, come aggiunge Diodoro di Sicilia13 nell'esequie de' loro defunti pregavano gli Dei che li collocassero tra' beati. Dice il Voltaire che questa credenza dell'immortalità fu un'invenzione della politica di questa nazione; lo dice, ma non ne apporta alcuna prova; lo dice a caso secondo il suo solito parlare. Noi all'incontro proviamo in ciò consentire tutti i popoli, anche i più barbari. Scrive Erodoto che lo stesso sentivano i geti, popolo della Tracia14. E dei transi scrive che questi piangeano nella nascita de' figli, per li travagli che loro toccavano in questa vita, e faceano festa, quando morivano i loro parenti, per la felicità in cui credeano che quelli entrassero dopo la morte1. Lo stesso scrive Diodoro Siculo de' caldei2 e dei brammani delle Indie3. E lo stesso scrivesi degli arcadi4.

23. Lo stesso scrisse Cesare de' galli, onde i loro sacerdoti li animavano a disprezzare il timor della morte col pensiero dell'immortalità: Imprimis hoc volunt persuadere (Druides) non interire animos5. Lo stesso scrisse Appiano de' germani: Germani mortis contemptores ob spem secundae vitae6. Lo stesso scrisse de' goti Giovanni, chiamato Magnus Gothus7. Lo stesso scrivesi de' chinesi, i quali pregano per li morti, vedi Mascrier8. Lo stesso scrivesi de' giapponesi, vedi il p. Kircher. Lo stesso scrivesi de' peruviani, vedi Garcilasso9. E vedasi il p. Haver nella sua opera, La spiritualità ed immortalità dell'anima10, ove dà ragguaglio di molti popoli più selvaggi che credono l'immortalità dell'anima. Tutto ciò fa conoscere, che tal credenza è sentimento della natura; e se è della natura, egli dee tenersi per veridico, giacché la natura non ingerisce sentimenti falsi: Omni autem in re, scrisse Cicerone, consensio omnium gentium lex naturae putanda est11. Quindi soggiunse: Atque haec ita sentimus natura duce, nulla ratione, nullaque doctrina; maximum vero argumentum est, naturam ipsa de immortalitate animorum tacitam iudicare. E questo medesimo comune consenso fece dire a Seneca: Cum de animorum immortalitate disserimus, non leve momentum apud nos habet consensus hominum, aut timentium inferos, aut colentium: utor hac persuasione pubblica12.

24. Ma no, dice Bayle: Se mi si dirà che una cosa la quale ci è insegnata dalla natura, ella è vera, io la negherò, e farò vedere che non vi è cosa all'acquisto della sapienza più necessaria, quanto il non seguire le istigazioni della natura in materia di vendetta e di orgoglio. Ma voi, signor Bayle, nominando vendetta ed orgoglio, parlate della natura guidata dalla passione; noi all'incontro parliamo della natura guidata dalla ragione, che condanna così la vendetta, come l'orgoglio; e perciò a torto negate esser vero quel che la natura insegna.

25. In somma gl'indiani, i giapponesi, i turchi ed altri barbari credono che siamo immortali. E poi come va che tra' cristiani, anche nella nostra Italia (come sento dire da più parti) vi sono tanti i quali predicano che l'uomo è una pura macchina, che colla morte si scompone e finisce? E ciò si spaccia per togliere ogni freno alla licenza, e far perdere l'orrore ad ogni iniquità? Oh miseria, dove siamo arrivati! Questo disordine così orrendo ha spinti molti uomini dotti e pii (dalle fatiche de' quali confesso aver raccolta e composta questa mia breve opera) a scrivere più volumi per farci intendere e persuaderci che siamo eterni, non mortali: spiriti, non macchine: uomini, non bestie.

26. Ma dicono i deisti che gli ebrei ed anche i loro patriarchi e profeti non hanno avuta alcuna credenza dell'immortalità dell'anima e della vita eterna. Tutto è falso, poiché primieramente nell'istoria della creazione scritta da Mosè, giusta la tradizione de' suoi avi, ben ivi si distingue il corpo dall'anima, esprimendosi che il corpo è polvere, e l'anima è spiritus vitae. Di più abbiamo che Giacobbe stimava la sua vita in questa terra un pellegrinaggio. Così egli rispose a Faraone, che l'interrogò quanti anni avea: Dies peregrinationis meae, gli disse, centum triginta annorum sunt, parvi et mali, et non pervenerunt usque ad dies patrum meorum, quibus peregrinati sunt1. I pellegrini son quelli che stan fuori della loro patria, e cercano di giungervi: e questo era l'intento dei patriarchi, come ci avvisa l'apostolo, che parlando di Abramo, Isacco e Giacobbe, scrisse: Confitentes quia peregrini et hospites sunt super terram. Qui enim haec dicunt, significant se patriam inquirere2.

27. Inoltre Balaam esclamava: Moriatur anima mea morte iustorum3. Chi parla così dà segno che aspetta un'altra vita dopo sua morte. Davide dicendo: Non derelinques animam meam in inferno4, diede a vedere che credea la risurrezione de' morti. Il medesimo poi in più luoghi parlò della beatitudine eterna: Adimplebis me laetitia cum vultu tuo, delectationes in dextera tua usque in finem5. Altrove disse: Satiabor cum apparuerit gloria tua6. Ed altrove, parlando de' beati disse: Inebriabuntur ab ubertate domus tuae7. Tutto significa la fede che avea de' beni eterni apparecchiati alle anime. Daniele scrisse: Suscipient autem regnum sancti Dei altissimi: et obtinebunt regnum in saeculum et saeculum saeculorum8. Ma l'empio Collins nella pag.222 ha la sfacciataggine di scrivere che Salomone negò schiettamente una verità sì importante. Egli si vale dei testi opposti già di sopra nel num. 4. 5. e 6. Ma a quelli si è bastantemente risposto; all'incontro abbiamo molti testi chiarissimi del savio, ov'egli spiega l'immortalità dell'anima. Ecco come parla al capo 5. della sapienza dal verso 8. in nome de' reprobi, che già stanno all'inferno: Quid nobis profuit superbia? aut divitiarum iactantia quid contulit nobis? Transierunt omnia illa tanquam umbra... Talia dixerunt in inferno hi qui peccaverunt. Come potea parlare più chiaro? In altro luogo dice: Sperat autem iustus in morte sua9. Che può aspettare il giusto nella sua morte, se non i beni riserbati dopo la morte? Di più scrisse: Memento creatoris... antequam... revertatur pulvis in terram suam, unde erat, et spiritus redeat ad Deum qui dedit illum10. Qui egli dà la differenza fra lo stato del corpo e dell'anima dopo la morte. Il profeta Isaia scrisse: Iustus periit... Veniat pax, requiescat in cubili suo, qui ambulavit in directione sua11. Il giusto muore, ma troverà la pace e il riposo per la buona vita menata su questa terra. Lo stesso profeta scrive: Vivent mortui tui, interfecti mei resurgent12. Come vivono i morti, se non con risorgere a miglior vita? Daniele parlò più chiaro: Multi de his qui dormiunt in terrae pulvere, evigilabunt, alii in vitam aeternam, et alii in opprobrium... et qui ad iustitiam erudiunt multos quasi stellae fulgebunt in perpetuas aeternitates13.

28. Ma questa cognizione dell'immortalità delle anime non solamente ella fu ne' dotti, ma anche in tutto il popolo. Ben ne furono istruiti gli ebrei da' parenti e da' dottori; e ciò apparisce specialmente dal fatto di Saulle, il quale, ritrovandosi angustiato da' nemici, e non potendo aver risposta da' profeti o sacerdoti pregò la pitonissa che chiamasse l'anima di Samuele. Samuele gli apparve, e gli annunciò l'imminente ruina. Sicché il re ed il popolo credeano già che vivessero le anime dopo la morte del corpo. Quindi Tobia dicea: Quoniam filii sanctorum sumus et vitam illam expectamus, quam Deus daturus est his qui fidem suam nunquam mutant ab eo1.


29. Abbiamo di più la testimonianza di Giuseppe ebreo, il quale scrive che i suoi ebrei ben credeano i beni riserbati nell'altra vita a coloro che osservano la legge: Futurum omnino credunt, ut illis qui leges servaverunt... vitae vicissim alterius, longeque melioris fructum Deus largiatur2. Scrisse anche Origene, parlando de' giudei: Vix natos et adhuc balbutientes didicisse animae immortalitatem, subterranea tribunalia, mercedem recte viventibus destinatam3. Erra dunque Arnaldo4 scrivendo: Questa è una somma ignoranza, il mettere in dubbio la verità, la quale è una delle più comuni della religion cristiana, ed è attestata da tutti i padri, che le promesse del vecchio testamento non erano che terrene, e che i giudei non adoravano Dio che per li beni carnali. Ma gli si oppone il chiarissimo de Fleury nella sua opera De moribus israelit., ove parlando de' giudei dice: Essi conosceano distintamente non esservi che un solo Dio..., e che questi è il giudice di tutte le azioni degli uomini dopo la loro morte; dal che ne siegue che l'anima è immortale e che vi è un'altra vita. Se non vi fosse altra prova a smentire Arnaldo, basta quel che disse uno de' fratelli Macabei ad Antioco, che lo provocava a romper la legge: Tu quidem, scelestissime, in praesenti vita nos perdis: sed rex mundi defunctos nos pro suis legibus in aeternae vitae resurrectione suscitabit5.

30. Dice un deista che i giudei appresero quest'immortalità da' persiani gentili, quando essi furon cattivi in Persia. Ma se i giudei avessero presa la dottrina de' persiani, avrebbero ancora appreso, secondo che quelli teneano, che vi fossero due principj, buono e malo, e che si dovesse adorare il sole e la luna. Ma è falso che i giudei seguissero la dottrina de' persiani, anzi l'abborrivano, come fecero vedere quei che ritornarono con Neemia: ed anche quei che restarono in Persia, mantennero la loro fede, e da ciò Amano prese l'occasione di farli tutti morire per editto dell'imperatore. Così anche è falso il dire che non vi era esempio di alcun ebreo che si fosse esposto a morire per non offender la legge. Mentre sappiamo che Sidrac, Misac ed Abdenago prima elessero di esser gittati nel fuoco, che adorare la statua di Nabucodonosor. E così anche Daniele, perseguitato per causa della religione, lieto entrò nella spelonca de' leoni.



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8 L. 3. c. 12.

9 T. 3. p. 9.

10 Scrive il p. Valsecchi lib. 1 cap. 5. aver udito da un certo illustre personaggio, che trovandosi egli in Londra, e sentendo che il signor di Saint-Evremond suo amico stava in fine di vita, andò a trovarlo, e gli disse: Amico, avete procurato di riconciliarvi col nostro buon Dio? Rispose il moribondo: Oh, amico mio, io vorrei potermi riconciliare coll'appetito, che ho già perduto; e poco appresso spirò. Ecco come morendo seppe ben imitare il suo maestro Petronio.

1 Mach. l. 2. c. 12. v. 43. et 46.

2 Matth. 10. 28.

3 Matth. 17. 3.

4 Eccl. 3. 19.

1 Ioan. 9. 4.

2 - 1. Tim. 6. 16.

1 Apol. 1. pro christian.

2 Chrysost. Hom. 2. in epist. ad Coloss.

1 Eccl. 9. 1. et 2.

2 1. Cor. 4. 4.

3 De civ. l. 13. c. 9.

4 Rom. 2. 6. et 7.

5 1. Cor. 15. 19.

1 Eccl. 1. 14.

2 L. 2. Tuscul. quaest.

3 De Senect.

1 De civ. Dei p. 126. c. 11.

1 Lett. Filos. art. di Locke.

2 Ep. ad Gerh. Wolteh.

3 In Cat. maj. c. 21.

4 L. 10. Ethic. c.6.

5 Tuscul. 1.

6 Sen. Consol. ad Marc.

7 Cons. ad Helviam.

8 L. 2. de anima text 21.

9 Ib. l. 1. c. 4.

10 L. 1. Ethic. c. 11.

11 Cic. in Lael. vel de Amic.

12 L. 2. c. 123.

13 De Fab. antiq. l. 2.

14 L. 4. c. 94.

1 Herod. l. 5. c. 291.

2 L. 3. de Cald.

3 Ibid. de Indis.

4 Inoltre si scorge la credenza dagli antichi tenuta, che le anime nostre non sono mortali, dalle iscrizioni sepolcrali che si ritrovano de' Gentili, ove si leggono scritte le parole Vale: Gaude: Have, et vale, aeternum have. Commendatum habeatis meum Carum; così presso il Grutero e il p. de Montefaucon, suppl. tom. 5. lib. 2. Lo stesso si argomenta dalle libazioni, che soleano mettere sopra i sepolcri, credendo che quelle giovassero alle anime de' morti, come scrisse il Gori. Scrisse poi il Bonarroti degli Etruschi: Etruscis communem cum Graecis et Latinis cruciatibus, qui in hac pictura expressi videntur, opinionem fuisse. Dalla nazione Etrusca, dice Virgilio esser discesi i Troiani per mezzo di Dardano: si noti l'antichità. Di più il signor Morino in una sua dissertazione fa vedere che i pagani pregavano per i loro defunti, e che credeano che le anime passavano dalla pena al gaudio, e perciò applicavano loro un certo sacrificio chiamato da' Greci Iusta, tenendo che per quello restavano le anime purificate. Di più riferisce un frammento degli Egizj, conservato da Porfirio, del medesimo uso, e dice che i pagani l'han preso dagli Egizj, e gli Egizj dagli Ebrei. E quindi nacquero i nomi del Tartaro e de' Campi Elisi tanto rinomati tra' poeti, de' quali scrisse Platone (in Mem.): Quicunque poetarum divini sunt homines, tradunt animam esse immortalem.

5 Caes. l. 6. de Bello Gall.

6 Appian. in Celtico.

7 L. 1. Histor. 2. 13.

8 Degli Usi relig. ec. t. 5. c. 380.

9 Histor. l. 2. c. 3.

10 T. 3. a. 42.

11 Tusc. c. 13.

12 Epist. 117. 24.

1 Gen. 47. 9.

2 Hebr. 11. 13. et 14.

3 Num. 23. 10.

4 Psal. 15. 10.

5 Psal. 15. 11.

6 Ps. 15. 16.

7 Psal. 35. 9.

8 Dan. 7. 18.

9 Prov. 14. 32.

10 Eccl. 12. 7.

11 Isa. 57. et 2.

12 Isa. 26. 19.

13 Dan. 12. 2. et 3.

1 Tob. 2. 18.

2 L. 2. contra Appion.

3 L. 5 contra Celsum.

4 Apol. de Port Royal.

5
 2. Mach. 7. 9. 

martedì 30 agosto 2011

La Città di Dio - XXXII parte

Riprendiamo la lettura dell'opera di Sant'Agostino nota come "La città di Dio": si conclude oggi la narrazione della storia di Roma secondo una visione critica che ci ha mostrato come non vi sia alcun collegamento tra le disgrazie e l'avvento del cristianesimo e di come invece Roma sia stata governata non da dei, ma da demoni che hanno approvato costumi osceni ed immorali che hanno condannato il popolo. Diamo un ultimo sguardo alle guerre civili pre-cristiane e ai cataclismi naturali: 

28. La vittoria di Silla che seguì, quanto dire la punitrice della crudeltà di Mario, ottenuta col molto sangue dei cittadini già versato, pur essendo finita la guerra ma rimanendo le rivalità, proprio in periodo di pace infierì più crudelmente. Alle prime e alle ultime stragi del primo Mario se ne aggiunsero altre più gravi da parte di Mario il giovane e di Carbone del partito di Mario. Quando Silla stava per ritornare, costoro disperando non solo della vittoria ma anche della vita riempirono la città con altre loro carneficine. Infatti oltre la strage che si aveva da ogni parte, fu assediato il senato, e dalla curia, come se fosse un carcere, i senatori venivano condotti alla decapitazione. Il pontefice Muzio Scevola, sebbene niente per i Romani era più santo del tempio di Vesta, fu ucciso mentre abbracciava l'altare e spense quasi col proprio sangue il fuoco che ardeva perpetuamente per la continua sorveglianza delle vestali. Poi Silla entrò vincitore in città. Nella villa pubblica egli, giacché non la guerra ma la pace mieteva vittime, ne abbatté, non in combattimento ma con un ordine, ben settemila che si erano arresi e per questo anche inermi. In città poi qualsiasi partigiano di Silla poteva uccidere chi volesse. Per questo era assolutamente impossibile calcolare i morti fino a che non fu consigliato a Silla di lasciarne vivere alcuni perché si dessero individui a cui i vincitori potessero comandare. Fu frenata allora la furiosa licenza di ammazzare che impazzava dovunque e fu proposta con grande soddisfazione una tavola la quale conteneva duemila nomi di cittadini dell'una e dell'altra classe nobile, cioè equestre e senatoria, che dovevano essere uccisi e proscritti. Rattristava il numero ma consolava il limite al massacro, e la tristezza per il fatto che tanti dovevano morire era minore della gioia perché gli altri cessavano di temere. Tuttavia la loro tranquillità, per quanto crudele, si dolse profondamente dei raffinati sistemi di morte riservati ad alcuni di coloro che erano stati condannati a morte. Qualcuno fu sbranato dalle mani inermi dei carnefici, uomini che straziavano un uomo vivo con maggior efferatezza di quanto siano solite le belve con un cadavere trovato in terra. Un altro fu fatto vivere a lungo, o meglio morire a lungo fra grandi sofferenze perché gli avevano cavati gli occhi e amputate parti del corpo ad una ad una. Furono messe all'asta, come se fossero ville, alcune illustri città; la sorteggiata fu tutta condannata ad essere ammazzata come se si trattasse dell'esecuzione di un solo delinquente. I fatti avvennero in periodo di pace dopo la guerra, non per accelerare il conseguimento della vittoria ma per dare rilievo a quella già conseguita. La pace gareggiò con la guerra in crudeltà e vinse. La guerra abbatté uomini armati, la pace inermi. La guerra significava che chi poteva essere ucciso, poteva se gli riusciva, uccidere a sua volta; la pace non significava che chi era scampato vivesse ma che morendo non desse più fastidio.

29. Quale furore di genti straniere, quale crudeltà di barbari si può paragonare a questa vittoria di cittadini su concittadini? Che cosa ha visto Roma di più efferato, macabro e desolante, forse l'antico saccheggio dei Galli e il recente dei Goti o piuttosto la violenza di Mario e Silla e degli altri uomini eminenti nei rispettivi partiti? Fu come la violenza degli occhi di Roma contro le sue membra. I Galli uccisero i senatori dovunque li avessero trovati in tutta Roma, fuorché nella rocca del Campidoglio che comunque era la sola ad essere difesa. A coloro però che si trovavano su questo colle permisero per lo meno di riscattare la vita con l'oro; e sebbene non potessero toglierla con le armi, avrebbero potuto farla deperire con un lungo assedio. I Goti poi hanno risparmiato tanti senatori che farebbe meraviglia se ne hanno uccisi alcuni. Invece Silla, e Mario era ancora vivo, s'insediò come vincitore sul Campidoglio, che fu rispettato dai Galli, per decretare le carneficine; e quando Mario gli sfuggì per tornare più violento e sanguinario, egli dal Campidoglio, anche con delibera del senato, privò molti della vita e delle sostanze. Per i partigiani di Mario poi nell'assenza di Silla non vi fu alcun oggetto santo che risparmiassero se non risparmiarono neanche Muzio cittadino, senatore, pontefice, nell'atto che stringeva con disperato abbraccio l'altare stesso in cui erano, a sentir loro, i destini di Roma. L'ultima tavola di Silla inoltre, per non parlare di molte altre uccisioni, mandò a morte più senatori di quanti i Goti riuscirono a derubare.

30. Con quale fronte dunque, con quale coraggio, con quale improntitudine, con quale stoltezza o meglio pazzia non rinfacciano i fatti antichi ai loro dèi e rinfacciano i recenti al nostro Cristo? Le crudeli guerre civili, più dannose, per confessione anche dei loro scrittori, di tutte le guerre esterne, da cui, come è stato giudicato, lo Stato non solo fu colpito ma completamente rovinato, sono scoppiate prima della venuta di Cristo. Per una concatenazione di delitti si venne dalla guerra di Mario e Silla a quelle di Sertorio e di Catilina, il primo proscritto, l'altro protetto da Silla; poi a quella di Lepido e Catulo, dei quali uno voleva rescindere, l'altro approvare gli atti di Silla; poi a quella di Pompeo e Cesare. Pompeo era stato seguace di Silla ma ne aveva già eguagliato o anche superato il prestigio. Cesare non tollerava il prestigio di Pompeo perché ne era privo, ma lo superò dopo che l'altro fu sconfitto e ucciso. Da costoro le guerre civili passarono all'altro Cesare, detto in seguito Augusto. Il Cristo nacque mentre egli era imperatore. Lo stesso Augusto sostenne numerose guerre civili, durante le quali morirono molti uomini illustri fra cui anche Cicerone, l'eloquente statista. Avvenne che una congiura di alcuni nobili senatori uccise col pretesto della libertà politica Caio Cesare, vincitore di Pompeo, accusato di aspirare al regno. Egli comunque aveva usato con clemenza della vittoria civile e aveva donato vita e onori ai propri avversari. Parve allora che Antonio, ben diverso per moralità da Cesare e profondamente depravato in tutti i vizi, aspirasse ad ereditarne il prestigio. Cicerone gli resisteva vigorosamente per la libertà della patria. S'era fatto notare intanto come giovane di indole ammirevole, l'altro Cesare, figlio adottivo di Caio Cesare che, come ho detto, fu chiamato Augusto. Cicerone favoriva il giovane Cesare affinché si affermasse il suo prestigio contro Antonio. Sperava che rimossa e abbattuta la signoria di Antonio, l'altro avrebbe restituito la libertà politica. Ma era ciecamente imprevidente del futuro al punto che proprio quel giovane, di cui sosteneva la capacità nel governo, permise ad Antonio come per un tacito accordo di uccidere Cicerone stesso e sacrificò alla propria signoria quella libertà politica per cui il meschino aveva tanto gridato.

31. I nostri avversari, che sono ingrati al nostro Cristo di beni tanto grandi, accusino i propri dèi di mali tanto grandi. È vero, quando si verificavano quei mali, gli altari delle divinità profumavano d'incenso d'Arabia e olezzavano di fresche ghirlande 102, splendevano le vesti sacerdotali, gli edifici sacri scintillavano, si sacrificava, si dava spettacolo, s'impazziva nei templi, anche se per ogni dove si versava da cittadini tanto sangue dei concittadini, non solo in altri luoghi ma perfino in mezzo agli altari degli dèi. Cicerone non scelse un tempio in cui rifugiarsi perché Muzio lo aveva scelto invano. Costoro invece, che tanto ingiustificatamente insultano la civiltà cristiana, o si rifugiarono negli edifici più illustri dedicati a Cristo o ve li condussero i barbari per salvarli. Io sono certo di una cosa e chiunque giudica senza partigianeria viene sicuramente d'accordo con me. Lascio da parte altri fatti perché molti ne ho citati e sono di più quelli sui quali ho ritenuto di non dovermi dilungare. Se il genere umano avesse ricevuto l'insegnamento cristiano prima delle guerre puniche e ne fosse seguita la grande catastrofe che attraverso quelle guerre desolò l'Europa e l'Africa, ognuno di questi che esercitano la nostra pazienza avrebbe attribuito tali sciagure soltanto alla religione cristiana. Ancora più insopportabili, per quanto riguarda i Romani, sarebbero le loro grida se al manifestarsi e diffondersi della religione cristiana avessero fatto seguito il saccheggio dei Galli, il disastro dell'inondazione del Tevere e dell'incendio, ovvero le guerre civili che sono il disastro più grande. E rinfaccerebbero sicuramente ai cristiani come colpe altre sventure che si verificarono contro ogni aspettativa tanto da essere considerati prodigi, se si fossero verificate ai tempi del cristianesimo. Ometto quei casi in cui si ebbe più del mirabile che del dannoso, come il fatto che buoi hanno parlato, che bimbi non ancor nati hanno gridato alcune parole dal grembo materno, che serpenti sono volati, che donne e galline sono divenute di sesso maschile e altri simili prodigi che si trovano nei loro libri, non poetici ma storici 103, e che, veri o falsi, non producono negli uomini danno ma stupefazione. Ma quando si ebbe una pioggia di terra o di sabbia o di pietre (non nel senso di grandine come talora si dice, ma proprio di pietre) 104, questi fenomeni poterono certamente recare danni anche gravi. Si legge negli scrittori che a causa delle lave dell'Etna, le quali dal vertice del monte colarono fino alla spiaggia, il mare si mise in ebollizione fino ad infuocare gli scogli e a sciogliere la pece delle navi 105. Il fenomeno non costituì un lieve danno, sebbene sia singolare fino all'inverosimile. Hanno scritto che in un'altra eruzione del vulcano la Sicilia fu invasa da tanta cenere da far crollare per il sovraccarico e il peso i tetti della città di Catania. I Romani mossi a compassione dal disastro per quell'anno le condonarono il tributo 106. Hanno scritto anche che il numero delle cavallette in Africa, quando era già provincia romana, ebbe del prodigioso; dicono che distrutte le frutta e la vegetazione si buttarono in mare in una nube enorme al di là di ogni calcolo. Lì morirono e furono restituite alla spiaggia. Essendo l'aria divenuta infetta scoppiò una così grave epidemia che, come si racconta, nel solo regno di Massinissa, morirono ottocentomila individui e molti di più nelle regioni vicine al mare 107. Assicurano che ad Utica delle trentamila reclute che vi erano ne rimasero diecimila. Dunque la superficialità, che dobbiamo tollerare e alla quale siamo costretti a rispondere, rinfaccerebbe ognuno di questi fatti alla religione cristiana se li riscontrasse ai tempi del cristianesimo. Eppure non li rinfacciano ai loro dèi, di cui vogliono ristabilito il culto per non subire questi mali per quanto minori, sebbene gli antichi politeisti ne abbiano subiti ben più gravi.

 

lunedì 29 agosto 2011

Redemptor hominis - La Prima Enciclica di Giovanni Paolo II - XVI

Continuiamo la lettura della Redemptor hominis, ovvero la Prima Enciclica di Giovanni Paolo II che cerca di rispondere ai dubbi e ai problemi dell'uomo contemporaneo, cercando allo stesso modo di ridare vitalità all'opera della Chiesa. Oggi scopriamo il ruolo, o meglio la responsabilità della Chiesa nel custodire e trasmettere la verità divina. E' una responsabilità che deriva dalla partecipazione della Chiesa alla missione di Gesù Cristo che per primo ha cominciato a mostrarci la vera figura del Padre:

IV - La missione della chiesa e la sorte dell'uomo 

19. La Chiesa responsabile della verità

Così, alla luce della sacra dottrina del Concilio Vaticano II, la Chiesa appare davanti a noi come soggetto sociale della responsabilità per la verità divina. Con profonda commozione ascoltiamo Cristo stesso, quando dice: «La parola che voi udite non è mia, ma del Padre che mi ha mandato»141. In questa affermazione del nostro Maestro non si avverte forse quella responsabilità per la verità rivelata, che è «proprietà» di Dio stesso, se perfino Lui, «Figlio unigenito» che vive «in seno al Padre»142, quando la trasmette come profeta e maestro, sente il bisogno di sottolineare che agisce in piena fedeltà alla sua divina sorgente? La medesima fedeltà deve essere una qualità costitutiva della fede della Chiesa, sia quando essa la insegna, sia quando la professa. La fede, come specifica virtù soprannaturale infusa nello spirito umano, ci fa partecipi della conoscenza di Dio, come risposta alla sua Parola rivelata. Perciò, si esige che la Chiesa, quando professa ed insegna la fede, sia strettamente aderente alla verità divina143, e la traduca in comportamenti vissuti di ossequio consentaneo alla ragione144. Cristo stesso, allo scopo di garantire la fedeltà alla verità divina, ha promesso alla Chiesa la particolare assistenza dello Spirito di verità, ha dato il dono dell'infallibilità145 a coloro, ai quali ha affidato il mandato di trasmettere tale verità e di insegnarla146 - come aveva già chiaramente definito il Concilio Vaticano I147 e, in seguito, ha ripetuto il Concilio Vaticano II148 - ed ha dotato, inoltre, tutto il Popolo di Dio di un particolare senso della fede149.

Di conseguenza, siamo diventati partecipi di questa missione di Cristo-profeta e, in forza della stessa missione, insieme con Lui serviamo la verità divina nella Chiesa. La responsabilità per tale verità significa anche amarla e cercarne la più esatta comprensione, in modo da renderla più vicina a noi stessi ed agli altri in tutta la sua forza salvifica, nel suo splendore, nella sua profondità ed insieme semplicità. Questo amore e questa aspirazione a comprendere la verità debbono camminare congiuntamente, come confermano le storie dei Santi della Chiesa. Essi erano più illuminati dall'autentica luce, che rischiara la verità divina ed avvicina la realtà stessa di Dio, perché si accostavano a questa verità con venerazione ed amore: amore soprattutto verso Cristo, Parola vivente della verità divina e, insieme, amore verso la sua espressione umana nel Vangelo, nella tradizione, nella teologia. Anche oggi sono necessarie, innanzitutto, tale comprensione e tale interpretazione della Parola divina; è necessaria tale teologia. La teologia ebbe sempre e continua ad avere una grande importanza, perché la Chiesa, Popolo di Dio, possa in modo creativo e fecondo partecipare alla missione profetica di Cristo. Perciò, i teologi, come servitori della verità divina, dedicando i loro studi e lavori ad una sempre più penetrante comprensione di essa, non possono mai perdere di vista il significato del loro servizio nella Chiesa, racchiuso nel concetto dell'«intellectus fidei». Questo concetto funziona, per così dire, a ritmo bilaterale, secondo l'espressione di S. Agostino «intellege, ut credas; crede, ut intellegas»150, e funziona in modo corretto allorché essi cercano di servire il Magistero, affidato nella Chiesa ai Vescovi, uniti col vincolo della comunione gerarchica col Successore di Pietro, ed ancora quando si mettono a servizio della loro sollecitudine nell'insegnamento e nella pastorale, come pure quando si mettono a servizio degli impegni apostolici di tutto il Popolo di Dio.

Come nelle epoche precedenti, così anche oggi - e forse ancora di più - i teologi e tutti gli uomini di scienza nella Chiesa sono chiamati ad unire la fede con la scienza e la sapienza, per contribuire ad una loro reciproca compenetrazione, come leggiamo nella preghiera liturgica per la memoria di Sant'Alberto, dottore della Chiesa. Questo impegno si è oggi enormemente ampliato per il progresso della scienza umana, dei suoi metodi e delle conquiste nella conoscenza del mondo e dell'uomo. Ciò riguarda tanto le scienze esatte, quanto anche le scienze umane, come pure la filosofia, i cui stretti legami con la teologia sono stati ricordati dal Concilio Vaticano II151.

In questo campo dell'umana conoscenza, che di continuo si allarga ed insieme si differenzia, anche la fede deve costantemente approfondirsi, manifestando la dimensione del mistero rivelato e tendendo alla comprensione della verità, che ha in Dio l'unica suprema sorgente. Se è lecito - e bisogna perfino augurarselo - che quell'enorme lavoro da svolgere in questo senso prenda in considerazione un certo pluralismo di metodi, tuttavia tale lavoro non può allontanarsi dalla fondamentale unità nell'insegnamento della Fede e della Morale, quale fine che gli è proprio. È, pertanto, indispensabile una stretta collaborazione della teologia col Magistero. Ogni teologo deve essere particolarmente cosciente di ciò che Cristo stesso ha espresso, quando ha detto: «La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato»152. Nessuno, dunque, può fare della teologia quasi che fosse una semplice raccolta dei propri concetti personali; ma ognuno deve essere consapevole di rimanere in stretta unione con quella missione di insegnare la verità, di cui è responsabile la Chiesa.

La partecipazione all'ufficio profetico di Cristo stesso plasma la vita di tutta la Chiesa, nella sua dimensione fondamentale. Una speciale partecipazione a questo ufficio compete ai Pastori della Chiesa, i quali insegnano e, di continuo e in diversi modi, annunciano e trasmettono la dottrina della fede e della morale cristiana. Questo insegnamento, sia sotto l'aspetto missionario che sotto quello ordinario, contribuisce ad adunare il Popolo di Dio attorno a Cristo, prepara alla partecipazione all'Eucaristia, indica le vie della vita sacramentale. Il Sinodo dei Vescovi nel 1977 ha dedicato la sua specifica attenzione alla catechesi nel mondo contemporaneo, e il frutto maturo delle sue deliberazioni, esperienze e suggerimenti troverà, fra breve, la sua espressione - conformemente alla proposta dei partecipanti al Sinodo - in un apposito documento pontificio. La catechesi costituisce, certamente, una perenne e insieme fondamentale forma di attività della Chiesa, in cui si manifesta il suo carisma profetico: testimonianza e insegnamento vanno di pari passo. E benché qui si parli in primo luogo dei sacerdoti, non è possibile però non ricordare anche il grande numero di religiosi e di religiose, che si dedicano all'attività catechistica per amore del Maestro divino. Sarebbe, infine, difficile non menzionare tanti laici, che in questa attività trovano l'espressione della loro fede e della responsabilità apostolica.

Inoltre, bisogna sempre più procurare che le varie forme della catechesi ed i diversi suoi campi - a cominciare da quella forma fondamentale, che è la catechesi «familiare», cioè la catechesi dei genitori nei riguardi dei loro propri figli - attestino la partecipazione universale di tutto il Popolo di Dio all'ufficio profetico di Cristo stesso. Bisogna che, in dipendenza da questo fatto, la responsabilità della Chiesa per la verità divina sia sempre più, e in vari modi, condivisa da tutti. E che cosa dire qui degli specialisti delle diverse discipline, dei rappresentanti delle scienze naturali e delle lettere, dei medici, dei giuristi, degli uomini dell'arte e della tecnica, degli insegnanti dei vari gradi e specializzazioni? Tutti loro - come membri del Popolo di Dio - hanno la propria parte nella missione profetica di Cristo, nel suo servizio alla verità divina, anche con l'atteggiamento onesto di fronte alla verità, a qualsiasi campo essa appartenga, mentre educano gli altri nella verità e insegnano loro a maturare nell'amore e nella giustizia. Così, dunque, il senso di responsabilità per la verità è uno dei fondamentali punti d'incontro della Chiesa con ogni uomo, ed è parimenti una delle fondamentali esigenze, che determinano la vocazione dell'uomo nella comunità della Chiesa. La Chiesa dei nostri tempi, guidata dal senso di responsabilità per la verità, deve perseverare nella fedeltà alla propria natura, alla quale spetta la missione profetica che proviene da Cristo stesso: «Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi ... Ricevete lo Spirito Santo»153.

domenica 28 agosto 2011

Filotea: Introduzione alla vita devota - IX

Come ogni domenica, proseguiamo la lettura di una delle opere più celebre scritte dai santi: "Filotea: Introduzione alla vita devota" di San Francesco di Sales.  Come anticipato la scorsa settimana, oggi cominciamo la lettura delle Meditazioni che ci accompagneranno nei prossimi due mesi. Iniziamo con la prima meditazione sulla Creazione, nella quale l'anima riconosce la propria miseria e la bontà del Signore:




FILOTEA
Introduzione alla vita devota
(San Francesco di Sales)

PRIMA PARTE

Contiene consigli ed esercizi necessari per condurre l'anima dal primo desiderio della vita devota fino alla ferma risoluzione di abbracciarla

Capitolo IX


Prima Meditazione: LA CREAZIONE


Preparazione

Mettiti alla presenza di Dio.

Chiedigli di ispirarti.

Considerazioni

Rifletti che qualche anno fa tu non esistevi, anzi il tuo essere era proprio il nulla. O anima mia, dov’eri allora? Il mondo esisteva da tanto, e dite, proprio nulla.

Dio ti ha fatto fiorire da quel nulla per renderti ciò che sei, non perché avesse bisogno di te, ma per sua esclusiva bontà.

Rifletti sull’essere che Dio ti ha dato; è il primo nella scala degli esseri viventi; fatto per vivere nell’eternità e per unirsi perfettamente a Dio.

Affetti e propositi

Umiliati profondamente davanti a Dio, dicendo di cuore con il Salmista: Signore, davanti a te sono come nulla. Come hai fatto a ricordarti di me per crearmi? Anima mia, tu eri sprofondata in quell’abisso senza fondo, e ci saresti ancora se Dio non ti avesse tirata fuori; e che faresti in quel nulla?

Ringrazia Dio. Creatore, buono e potente, ti sono tanto riconoscente per avermi tirato fuori dal mio nulla, per avermi resa, per tua bontà, quella che sono. Che cosa posso fare per benedirti degnamente e rendere grazie alla tua immensa bontà?

E ora vergognati. Mio Creatore, anziché unirmi a te in amore e spirito di servizio, mi sono ribellata indegnamente con i miei affetti sregolati; mi sono separata e allontanata da te per confondermi con il peccato; non mi sono ricordata dell’onore di cui ti ero debitrice: ho dimenticato che sei il mio Creatore.

Umiliati davanti a Dio. Anima mia, devi sapere che il Signore è il tuo Dio; è lui che ti ha creato; non ti sei fatta da sola! Signore, sono opera delle tue mani.

Per quanto, d’ora in poi, non voglio più compiacermi in me stessa, perché sono proprio nulla. Di che cosa vorresti gloriarti? Tu, polvere e cenere, o meglio, nulla? Di che ti esalti? Per umiliarmi voglio fare e questo e quello; sopportare quel disprezzo, quell’altro. Voglio cambiare vita e seguire il mio Creatore e sentirmi onorata per l’essere che egli mi ha dato; voglio impegnarlo totalmente nell’obbedire alla sua volontà, nei modi che mi verranno indicati, e sui quali mi illuminerà il mio padre spirituale.

Conclusione

Ringraziamento. Anima mia, benedici il tuo Dio e lodino il suo nome tutte le viscere; perché la sua bontà mi ha tratto dal nulla e la sua misericordia mi ha creato.

Offerta. Signore, con tutto il cuore, ti offro l’essere che mi hai dato; lo dedico e lo consacro a Te.

Preghiera. Signore, rendimi forte in questi affetti e in questi propositi; Vergine Santa, raccomandali alla misericordia di tuo Figlio, come pure tutte quelle persone per le quali devo pregare,ecc.

Padre nostro, Ave Maria.

Uscendo dall’orazione raccogli un po’ qua e un po’ là e, scegliendo tra le considerazioni fatte, confeziona un mazzetto di devozione; così, durante tutto l’arco della giornata, potrai odorarne il profumo.

sabato 27 agosto 2011

Il Sabato dei Salmi - Salmo 67 (66) - Preghiera collettiva dopo il raccolto annuale

Salmo 67   

Preghiera collettiva dopo il raccolto annuale 
[1]Al maestro del coro. Su strumenti a corda.Salmo. Canto. 

[2]Dio abbia pietà di noi e ci benedica,
su di noi faccia splendere il suo volto;
[3]perché si conosca sulla terra la tua via,
fra tutte le genti la tua salvezza. 

[4]Ti lodino i popoli, Dio,
ti lodino i popoli tutti.
[5]Esultino le genti e si rallegrino,
perché giudichi i popoli con giustizia,
governi le nazioni sulla terra. 

[6]Ti lodino i popoli, Dio,
ti lodino i popoli tutti.
[7]La terra ha dato il suo frutto.
Ci benedica Dio, il nostro Dio,
[8]ci benedica Dio
e lo temano tutti i confini della terra. 


COMMENTO

Oggi incontriamo un tema caro, quello della preghiera collettiva. "Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" dice il Signore nel Vangelo di Matteo. Abbiamo tanto bisogno di essere consapevoli della potenza della preghiera comunitaria. Quanto potente sarebbe la preghiera di un intero popolo! Il Signore ci indica un numero minimo perché Lui sia tra noi: due o tre. Quanto più sarebbe ascoltata la preghiera se fossero riunite centinaia o migliaia di genti! La preghiera collettiva di cui si parla segue il raccolto annuale. Una preghiera di ringraziamento perché anche in questo anno il popolo ha potuto raccogliere i frutti della terra. Oggi siamo capaci di ringraziare Dio quando ci dona i Suoi frutti? I santi ci insegnano a ringraziarLo anche nelle avversità. Come possiamo non ringraziarLo nella prosperità? Il Signore si deve ringraziare ancor più per il Frutto più grande di tutti che ci ha dato per mezzo del terreno verginale e fertile del grembo di Maria: Gesù Cristo!

Meditiamo ora le parole del Salmo: "su di noi faccia splendere il suo volto perché si conosca sulla terra la tua via, fra tutte le genti la tua salvezza". Cosa ci fanno venire in mente queste parole? Queste ci dicono che noi dobbiamo portare la Luce del Signore sui nostri volti perché la gente per mezzo di noi, Suoi testimoni e figli adottivi, possano conoscere la via che conduce alla salvezza: Gesù Cristo. Non solo quella che abbiamo visto è una preghiera di ringraziamento e lode, ma anche una preghiera che ci mette nella disponibilità di accogliere la Sua Luce e di portarla in tutto il mondo.

Preghiamo con le parole del Salmo: Ci benedica Dio, il nostro Dio, ci benedica Dio e lo temano tutti i confini della terra.

venerdì 26 agosto 2011

Siracide - Quarantacinquesimo appuntamento

Proseguiamo la lettura del libro sapienziale del Siracide con il quarantacinquesimo capitolo:


45

1Da lui fece sorgere un uomo di pietà,
che riscosse una stima universale
e fu amato da Dio e dagli uomini:
Mosè, il cui ricordo è benedizione.
2Lo rese glorioso come i santi
e lo rese grande a timore dei nemici.
3Per la sua parola fece cessare i prodigi
e lo glorificò davanti ai re;
gli diede autorità sul suo popolo
e gli mostrò una parte della sua gloria.
4Lo santificò nella fedeltà e nella mansuetudine;
lo scelse fra tutti i viventi.
5Gli fece udire la sua voce;
lo introdusse nella nube oscura
e gli diede a faccia a faccia i comandamenti,
legge di vita e di intelligenza,
perché spiegasse a Giacobbe la sua alleanza,
i suoi decreti a Israele.

6Egli innalzò Aronne, santo come lui,
suo fratello, della tribù di Levi.
7Stabilì con lui un'alleanza perenne
e gli diede il sacerdozio tra il popolo.
Lo onorò con splendidi ornamenti
e gli fece indossare una veste di gloria.
8Lo rivestì con tutta la magnificenza,
lo adornò con paramenti maestosi:
calzoni, tunica e manto.
9All'orlo della sua veste pose melagrane,
e numerosi campanelli d'oro all'intorno,
che suonassero al muovere dei suoi passi,
diffondendo il tintinnio nel tempio,
come richiamo per i figli del suo popolo.
10L'ornò con una veste sacra, d'oro,
violetto e porpora, capolavoro di ricamo;
con il pettorale del giudizio, con i segni della verità,
e con tessuto di lino scarlatto, capolavoro di artista;
11con pietre preziose, incise come sigilli,
su castoni d'oro, capolavoro di intagliatore,
quale memoriale con le parole incise
secondo il numero delle tribù di Israele.
12Sopra il turbante gli pose una corona d'oro
con incisa l'iscrizione sacra,
insegna d'onore, lavoro stupendo,
ornamento delizioso per gli occhi.
13Prima di lui non si erano viste cose simili,
mai un estraneo le ha indossate;
esse sono riservate solo ai suoi figli
e ai suoi discendenti per sempre.
14I suoi sacrifici vengono tutti bruciati,
due volte al giorno, senza interruzione.
15Mosè lo consacrò e l'unse con l'olio santo.
Costituì un'alleanza perenne per lui
e per i suoi discendenti, finché dura il cielo:
quella di presiedere al culto ed esercitare il sacerdozio
e benedire il popolo nel nome del Signore.
16Il Signore lo scelse tra tutti i viventi
perché gli offrisse sacrifici,
incenso e profumo come memoriale
e perché compisse l'espiazione per il suo popolo.
17Gli affidò i suoi comandamenti,
il potere sulle prescrizioni del diritto,
perché insegnasse a Giacobbe i decreti
e illuminasse Israele nella sua legge.
18Contro di lui insorsero uomini estranei
e furono gelosi di lui nel deserto;
erano gli uomini di Datan e di Abiron
e quelli della banda di Core, furiosi e violenti.
19Il Signore vide e se ne indignò;
essi finirono annientati nella furia della sua ira.
Egli compì prodigi a loro danno
per distruggerli con il fuoco della sua fiamma.
20E aumentò la gloria di Aronne,
gli assegnò un patrimonio,
gli riservò le primizie dei frutti,
dandogli innanzi tutto pane in abbondanza.
21Si nutrono infatti delle vittime offerte al Signore
che egli ha assegnato ad Aronne e ai suoi discendenti.
22Tuttavia non ha un patrimonio nel paese del popolo,
non c'è porzione per lui in mezzo al popolo,
perché il Signore è la sua parte e la sua eredità.

23Pincas, figlio di Eleazaro, fu il terzo nella gloria
per il suo zelo nel timore del Signore
per la sua fermezza quando il popolo si ribellò,
egli infatti intervenne con generoso coraggio
e placò Dio in favore di Israele.
24Per questo fu stabilita con lui un'alleanza di pace,
perché presiedesse al santuario e al popolo;
così a lui e alla sua discendenza fu riservata
la dignità del sacerdozio per sempre.
25Ci fu anche un'alleanza con Davide,
figlio di Iesse, della tribù di Giuda;
la successione reale dal padre a uno solo dei figli,
la successione di Aronne, a tutta la sua discendenza.
26Vi infonda Dio sapienza nel cuore
per governare il popolo con giustizia,
perché non scompaiano le virtù dei padri
e la loro gloria nelle varie generazioni.


RIFLESSIONE

Oggi abbiamo modo di riflettere sulla dignità sacerdotale. Nel nostro secolo oggi viene banalizzata la figura del sacerdote, ma la Bibbia esalta il sacerdozio poiché esso è dono di Dio fatto al popolo. San Giovanni Maria Vianney scrisse: "Se comprendessimo bene che cos'è un prete sulla terra, moriremmo: non di spavento, ma d'amore... Senza il prete, la morte e la passione di Nostro Signore non servirebbero a niente. È il prete che continua l'opera della Redenzione sulla terra... Che ci gioverebbe una casa piena d'oro se non ci fosse nessuno che ce ne apre la porta? Il prete possiede la chiave dei tesori celesti, è lui che apre la porta, egli è l'economo del buon Dio, l'amministratore dei suoi beni... lasciate una parrocchia per vent'anni senza prete, vi si adoreranno le bestie... il prete non è prete per sé, lo è per voi".

Abbiamo visto Ben Sira esaltare Aronne, mentre uomini dei giorni nostri non avrebbero esitato a scagliarsi contro di lui davanti agli errori da lui commessi. Mosè, suo fratello intercedette per lui perché il Signore gli risparmiasse la punizione che egli aveva giustamente meritata. Mosè fa appello alla misericordia di Dio, quello che oggi molti secolari e gli stessi cattolici non fanno nei confronti di quei sacerdoti un po' distratti. Il Signore non solo perdonò Aronne ma aumentò la sua gloria. L'uomo anziché giudicare deve pregare per i sacerdoti poiché essi sono pur sempre stati scelti da Dio per il nostro bene e anche loro hanno bisogno delle nostre preghiere perché il Signore perdoni loro le loro mancanze e li santifichi. Il Signore si indignò nei confronti dei nemici di Aronne e si indignerà anche nei nostri confronti se giudichiamo i Suoi eletti.

Gesù è venuto a donarci il Suo Spirito perché possiamo vivere in umiltà, ingrediente indispensabile per non aspirare a carriere e per non metterci contro il nostro prossimo. Gli uomini di Datan e di Abiron furono gelosi di Aronne, come oggi sono gelosi tanti uomini tra loro. Alcuni di essi muovono guerre nei confronti dei sacerdoti, anche e soprattutto verso il nostro caro e amato Pontefice, uomo umile e giusto. Perché queste gelosie quando Dio ha chiamato il sacerdote per dare il pane e il vino della salvezza a tutti? Il sacerdozio non è carriera personale, ma dono che Dio fa al Suo servo e ai Suoi figli, al Suo popolo perché mediante il sacerdozio si santifichino preti e fedeli. Perché essere gelosi nei confronti di un uomo, in questo caso il sacerdote, che lavora per il bene degli altri e per il nostro stesso bene? Non ha senso.

Amiamo di più i nostri sacerdoti, anche quando mancano e soprattutto preghiamo per loro. Il Signore ci benedirà poiché Egli li ha scelti per il nostro bene.

Concludiamo con una breve riflessione sulla politica attuale. Il capitolo odierno conclude dicendo: 
"Vi infonda Dio sapienza nel cuore per governare il popolo con giustizia, perché non scompaiano le virtù dei padri e la loro gloria nelle varie generazioni". Questo è senz'altro rivolto ai sacerdoti, ma vale anche per i governanti delle nazioni. C'è bisogno di più preghiera perché il Signore infondi sapienza nei cuori di chi governa, perché non rinneghino le radici cristiane e "perché non scompaiano le virtù dei padri", modello e guida per la buona civiltà.

giovedì 25 agosto 2011

Catechismo della Chiesa Cattolica - XL parte

Proseguiamo il nostro appuntamento volto alla conoscenza del Catechismo della Chiesa Cattolica. Sempre restando nell'Articolo 9, leggiamo oggi il Paragrafo 6 incentrato su Maria, Madre di Cristo e della Chiesa:
 
CAPITOLO TERZO: CREDO NELLO SPIRITO SANTO

Articolo 9 

Paragrafo 6 MARIA: MADRE DI CRISTO. MADRE DELLA CHIESA

963 Dopo aver parlato del ruolo della Vergine Maria nel Mistero di Cristo e dello Spirito, è ora opportuno considerare il suo posto nel Mistero della Chiesa. «Infatti la Vergine Maria.., e riconosciuta e onorata come la vera Madre di Dio e del Redentore. . . Insieme però... e veramente “Madre delle membra” [di Cristo]... perché ha cooperato con la sua carità alla nascita dei fedeli nella Chiesa, i quali di quel Capo sono le membra», «...Maria Madre di Cristo, Madre della Chiesa» .

I. La maternità di Maria verso la Chiesa

Interamente unita al Figlio suo. -


964 Il ruolo di Maria verso la Chiesa è inseparabile dalla sua unione a Cristo e da essa direttamente deriva. «Questa unione della Madre col Figlio nell’opera della Redenzione si manifesta dal momento della concezione verginale di Cristo fino alla morte di lui». Essa viene particolarmente manifestata nell’ora della sua Passione:

La beata Vergine ha avanzato nel cammino della fede e ha conservato 534 fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce, dove, non senza un disegno divino, se ne stette ritta, soffrì profondamente con suo Figlio unigenito e si associò con animo materno al sacrificio di lui, amorosamente consenziente all’immolazione della vittima da lei generata; e finalmente, dallo stesso Cristo Gesù morente in croce fu data come madre al discepolo con queste parole: «Donna, ecco il tuo figlio» (⇒ Gv 19, 26).

965 Dopo l’Ascensione del suo Figlio, Maria «con le sue preghiere aiutò le primizie della Chiesa». Riunita con gll Apostoli e alcune donne, «anche Maria implorava con le sue preghiere il dono dello Spirito, che l’aveva già presa sotto la sua ombra nell’Annunciazione» .

.. - .anche nella sua Assunzione... - .

966 «Infine, l’immacolata Vergine, preservata immune da ogni macchia di colpa originale, finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla celeste gloria col suo corpo e con la sua anima, e dal Signore esaltata come la Regina dell’universo. perché fosse più pienamente conformata al Figlio suo, il Signore dei dominanti, il vincitore del peccato e della morte». L’Assunzione della Santa Vergine è una singolare partecipazione alla Risurrezione del suo Figlio e un’anticipazione della risurrezione degli altri cristiani.

Nella tua maternità hai conservato la verginità, nella sua dormizione non hai abbandonato il mondo, o Madre di Dio; hai raggiunto la sorgente della Vita, tu che hai concepito il Dio vivente e che con le tue preghiere libererai le nostre anime dalla morte.

- - Ella è nostra Madre nell’ordine della grazia

967 Per la sua piena adesione alla volontà del Padre, all’opera redentrice del suo Figlio, ad ogni mozione dello Spirito Santo, la Vergine Maria è il modello della fede e della carità per la Chiesa. «Per questo è riconosciuta quale sovreminente e del tutto singolare membro della Chiesa» «ed è la figura [“typus”] della Chiesa».

968 Ma il suo ruolo in rapporto alla Chiesa e a tutta l’umanità va ancora più lontano. «Ella ha cooperato in modo tutto speciale all’opera del Salvatore, con l’obbedienza, la fede, la speranza e l’ardente carità cr restaurare la vita soprannaturaledelle anime. Per questo è stata Per noi la Madre nell’ordine della grazia»

969 «Questa maternità di Maria:

nell’economia della grazia perdura senza soste dal momento del consenso prestato nella fede al tempo dell’Annunciazione, e mantenuto senza esitazioni sotto la croce, fino al perpetuo coronamento di tutti gli eletti. Difatti, assunta in cielo ella non ha deposto questa missione di salvezza, ma con la sua molteplice intercessione continua ad ottenerci i doni della salvezza eterna. . . Per questo la beata Vergine è invocata nella Chiesa con i titoli di avvocata, ausiliatrice, soccorritrice, mediatrice»

970 «La funzione materna di Maria verso gli uomini in nessun modo oscura o diminuisce» l’«unica mediazione di Cristo, ma ne mostra l’efficacia. Infatti ogni salutare influsso della beata Vergine. . . sgorga dalla sovrabbondanza dei meriti di Cristo, si fonda sulla mediazione di lui, da essa assolutamente dipende e attinge tutta la sua efficacia»«Nessuna creatura infatti può mai essere paragonata col Verbo incarnato e Redentore; ma come il sacerdozio di Cristo è in vari modi partecipato dai sacri ministri e dal Popolo fedele, e come l’unica bontà di Dio è realmente diffusa in vari modi nelle creature, così anche l’unica mediazione del Redentore non esclude, ma suscita nelle creature una varia cooperazione partecipata dall’unica fonte».

II. Il culto della Santa Vergine

971 «Tutte le generazioni mi chiameranno beata» (⇒ Lc 1, 48). «La pietà della Chiesa verso la Santa Vergine è elemento intrinseco del culto cristiano”. La Santa Vergine «viene dalla Chiesa giustamente onorata con un culto speciale. In verità dai tempi più antichi la beata Vergine è venerata col titolo di “Madre di Dio”, sotto il cui presidio i fedeli, pregandola, si rifugiano in tutti i loro pericoli e le loro necessità... Questo culto..., sebbene del tutto singolare, differisce essenzialmente dal culto di adorazione, prestato al Verbo incarnato come al Padre e allo Spirito Santo, e particolarmente lo promuove» esso trova la sua espressione nelle feste liturgiche dedicate alla Madre di Dio e nella preghiera mariana come il santo Rosario, «compendio di tutto quanto il Vangelo».

III. Maria - Icona escatologica della Chiesa

972 Dopo aver parlato della Chiesa, della sua origine, della sua missione e del suo destino, non sapremmo concludere meglio che volgendo lo sguardo verso Maria per contemplare in lei ciò che la Chiesa è nel suo Mistero, nel suo «pellegrinaggio della fede», e quello che sarà nella patria al termine del suo cammino, dove l’attende, nella «gloria della Santissima e indi indivisibile Trinità», «nella comunione di tutti i santi» colei che la Chiesa venera come la Madre del suo Signore e come sua propria Madre:

La Madre di Gesù, come in cielo, glorificata ormai nel corpo e nell’anima, è l’immagine e la primizia della Chiesa che dovrà avere il suo compimento nell’età futura, così sulla terra brilla come un segno di sicura speranza e di consolazione per il popolo di Dio in cammino.

IN SINTESI

973 Pronunziando il «fiat» dell’Annunciazione e dando il suo consenso al Mistero dell’incarnazione, Maria già collabora a tutta l’opera che il Figlio suo deve compiere. Ella è Madre dovunque egli è Salvatore e Capo del Corpo Mistico.

974 La Santissima Vergine Maria, dopo aver terminato il corso della sua vita terrena, fu elevata, corpo e anima, alla gloria del cielo, dove già partecipa alla gloria della Risurrezione del suo Figlio, anticipando la risurrezione di tutte le membra del suo Corpo.

975 «Noi crediamo che la Santissima Madre di Dio, nuova Eva, Madre della Chiesa, continua in cielo il suo ruolo materno verso le membra di Cristo»