martedì 10 gennaio 2012

La Città di Dio - XLVI parte

Riprendiamo la lettura dell'opera di Sant'Agostino nota come "La città di Dio": continuiamo la lettura del capitolo quinto:

Libro quinto
VISIONE IRRAZIONALISTA E RAZIONALISTA DELLA STORIA

7. Ma è proprio insopportabile che con la scelta dei giorni tentino di determinare destini nuovi alle proprie azioni. Il sapiente suddetto non era nato per avere un figlio meraviglioso ma piuttosto insignificante e quindi, da persona intelligente qual era, ha scelto lui l'ora per unirsi alla moglie. Il destino che non aveva se lo sarebbe fatto lui e da quel fatto avrebbe cominciato ad essere destinato ciò che nella nascita non lo era. Che sciocchezza! Si sceglierebbe un giorno per ammogliarsi, perché, penso, se non si scegliesse, si potrebbe incappare in un giorno non buono con infelice auspicio per il matrimonio. Ma allora che cosa hanno già destinato gli astri per il nascituro? Può forse l'uomo cambiare con la scelta di un giorno ciò che gli è destinato e ciò che egli avrà di mira nell'eleggere il giorno non potrà essere mutato da un altro potere? Inoltre se gli uomini soltanto e non tutte le cose che sono sotto il cielo sono soggette all'oroscopo, perché scelgono alcuni giorni adatti per piantare viti, alberi e biade ed altri per domare gli animali o mandarli alla monta in cui dai maschi saranno fecondati i branchi di cavalle o di mucche o di altri animali? Se al contrario sono determinanti a questi effetti i giorni scelti appunto perché la posizione degli astri secondo la diversità dei momenti di tempo domina tutti i fenomeni fisici e biologici, riflettano quanti esseri in un solo attimo di tempo nascano, sorgano e comincino, e quali fini diversi abbiano. Così rendono tali previsioni oggetto di scherno perfino ai bambini. Nessuno è tanto stupido da azzardarsi a dire che tutti gli alberi, tutte le erbe, tutte le bestie, cioè serpenti, uccelli, pesci, vermi hanno singolarmente attimi diversi del loro nascere. Si suole, per provare la bravura degli astrologi, portare ad essi gli oroscopi di animali muti, di cui si notano diligentemente le nascite a casa ai fini di questa verifica e si ritengono superiori agli altri quegli astrologi i quali, scrutato l'oroscopo, dicono che non è nato un uomo ma un animale. Si azzardano perfino a dire quale animale, e cioè se adatto alla lana, al traino o all'aratro o alla custodia della casa. Si avventurano appunto a predire il destino ai cani e danno i loro responsi fra le esclamazioni degli ammiratori. Gli uomini sono tanto sciocchi da pensare che quando nasce uno di loro sia arrestato il verificarsi di ogni altro fenomeno sicché contemporaneamente sotto il medesimo segno dello zodiaco non nascerebbe neanche una mosca. Infatti se lasciassero passare la mosca, il ragionamento si allarga e un po' alla volta con leggere concessioni dalle mosche giunge ai cammelli e agli elefanti. E non vogliono riflettere che nel giorno scelto per seminare il campo molti granelli di frumento assieme arrivano alla terra, assieme germogliano e, nata la pianta, assieme verdeggiano, maturano e biondeggiano e tuttavia, in seguito, delle spighe nate nel medesimo tempo e per così dire dal medesimo germe alcune ne distrugge la ruggine, altre ne saccheggiano gli uccelli ed altre ne raccolgono gli uomini. Non potranno dire che hanno oroscopi diversi, sebbene le vedano fare una fine tanto diversa. Ovvero cesseranno di scegliere i giorni propizi per queste cose, le sottrarranno al responso delle stelle e crederanno soggetti agli astri soltanto gli uomini sebbene a loro soltanto sulla terra Dio ha concesso la libera volontà. Dopo tutte queste considerazioni giustamente si ritiene che quando gli astrologi danno molti responsi stupendamente veri, il fatto non avviene in virtù dell'arte inesistente di leggere e scrutare l'oroscopo, ma per una occulta suggestione di spiriti non buoni che si danno da fare per imprimere a fondo nelle umane coscienze falsi e dannosi pregiudizi sul destino proveniente dagli astri.

8. Alcuni non considerano il fato come la diversa combinazione degli astri quando un essere qualsiasi viene concepito, generato o incominciato ma come il nesso ordinato di tutte le cause per cui si verificano tutti i fenomeni. Con loro non è necessario polemizzare faticosamente in una controversia sul significato delle parole se riconoscono al volere e al potere del Dio sommo l'ordine e un determinato nesso delle cause. Si crede con somma certezza e verità che egli conosca tutte le cose prima che avvengano, che non lasci nulla fuori dell'ordine, perché da lui dipende ogni potere sebbene non da lui dipende il volere di tutti. Che gli stoici chiamino destino principalmente la stessa volontà del Dio sommo, il cui potere si estende sovranamente su tutto, si dimostra nella maniera seguente. Sono di Anneo Seneca, salvo errore, questi versi: Conducimi, o padre sommo e dominatore dell'alto cielo, dove tu vuoi, non indugerò ad obbedirti, sono pronto; se al contrario non vorrò, ti seguirò gemendo ed essendo cattivo subirò ciò che se fossi buono era piacevole fare. Il destino conduce chi vuole, trascina chi non vuole 13. In quest'ultimo verso ha evidentemente considerato destino ciò che in precedenza aveva definito la volontà del padre sommo, si dichiara pronto ad eseguirla per essere da lei condotto volente e non trascinato nolente, giacché il destino conduce chi vuole, trascina chi non vuole. Sono favorevoli a questa dottrina anche i seguenti versi di Omero che Cicerone tradusse in latino: La coscienza degli uomini è come la luce con cui Giove padre illumina la terra feconda 14. In materia non avrebbero autorità le parole di un poeta ma Cicerone afferma che gli stoici nel sostenere il potere del fato sono soliti ricorrere a questi versi di Omero. Non si tratta quindi di una teoria di quel poeta ma dei filosofi suddetti. Infatti mediante questi versi usati da loro nella teoresi sul destino viene dichiarata apertamente la loro dottrina sul destino, perché considerano Giove come il sommo Dio da cui, secondo loro, dipende la concatenazione dei destini.

9. 1. Cicerone polemizza contro gli stoici con la convinzione che non addurrebbe prove valide contro di loro se non eliminasse la divinazione. E tenta di eliminarla così da negare la conoscenza del futuro e da sostenere con tutte le forze che è assolutamente impossibile sia nell'uomo che in Dio: non vi può essere nessuna predizione delle cose. Nega così la prescienza di Dio e cerca di demolire ogni profezia anche se evidentissima con vuote argomentazioni e col rilevare le contraddizioni di alcuni oracoli che è facile respingere. Tuttavia neanche di essi ha dato una vera confutazione. Nel respingere le supposizioni degli astrologi il suo discorso riceve autorità dalla considerazione che esse sono tali che si eliminano e confutano da sé. Ma coloro che ammettono per lo meno destini stellari sono più sopportabili di lui che esclude la prescienza del futuro. È evidente mancanza di intelligenza ammettere l'esistenza di Dio e negarne la prescienza del futuro. Essendosene accorto pure lui, saggiò perfino l'argomento di quel verso della Scrittura che dice: Ha detto lo sciocco in cuor suo: Dio non esiste 15, ma non come propria personale teoria. Notava infatti che era una parte spiacevole e sgradita e perciò nei libri de La natura degli dèi introdusse Cotta nella disputa contro gli stoici sull'argomento, e preferì esporre la propria teoria nella parte di Lucilio Balbo, al quale affidò la difesa della tesi stoica, anziché in quella di Cotta il quale nega l'esistenza di un essere divino 16. Invece nei libri su La divinazione da sé apertamente polemizza contro la prescienza del futuro 17. E, come sembra, tutto il suo impegno consiste nel non ammettere il destino per non negare la libera volontà. Pensa infatti che data la premessa della conoscenza del futuro si ha la conclusione assolutamente innegabile dell'esistenza del destino. Ma comunque siano i tortuosi cavilli e discussioni dei filosofi, noi per ammettere l'esistenza del Dio sommo e vero, ammettiamo anche la sua volontà, il sommo potere e la prescienza e non temiamo di non fare con la volontà ciò che con la volontà facciamo. Di questo ha prescienza colui la cui prescienza non può errare. Lo temettero Cicerone per negare la prescienza e gli stoici per non ammettere che tutto avviene per necessità, sebbene sostengano che tutto avviene per destino.

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