domenica 26 febbraio 2012

Filotea: Introduzione alla vita devota - XXXIV

Proseguiamo l'appuntamento con Filotea: Introduzione alla vita devota di San Francesco di Sales.





FILOTEA
Introduzione alla vita devota

(San Francesco di Sales)



SECONDA PARTE

Contiene diversi consigli per l’elevazione dell’anima a Dio per mezzo dell’Orazione e dei Sacramenti.



Capitolo X

ESERCIZIO DEL MATTINO




Oltre a questa orazione mentale strutturata e completa, e altre preghiere vocali da dire durante il giorno, ci sono altre cinque forme di preghiere brevi e che sono come prolungamenti e fioriture della grande orazione. La prima è quella del mattino, che è una preparazione generale alla giornata. Ecco come devi farla:

Ringrazia e adora Dio dal profondo di te stessa per la grazia che ti ha fatto nel conservarti la notte passata; e se in essa tu avessi peccato, chiedigli perdono.

Tu sai bene che il giorno presente ti è concesso perché tu possa acquistare quello futuro nell’eternità; a questo fine farai un fermo proposito di spendere bene la giornata.

Cerca di prevedere gli affari, gli incontri, le situazioni in cui ti troverai nel corso della giornata, per servire Dio, e quali tentazioni potranno sopraggiungere per offenderlo: a causa della collera, della vanità o di qualche altra mancanza di controllo; e, con un fermo proposito, preparati a impiegare bene i mezzi che ti saranno offerti di servire Dio e progredire nella devozione; per contro, preparati a evitare, o combattere e vincere, tutto ciò che potresti incontrare e che sia contro la tua salvezza e la gloria di Dio.

Non basta prendere questa risoluzione, occorre predisporre i mezzi per attuarla. Per esempio, se prevedo di dover trattare un affare con una persona passionale e pronta alla collera, non soltanto devo fare il proposito di non reagire alle sue sfuriate, ma devo preparare delle frasi gentili per prevenirla, o prevedere la presenza di una persona capace di moderarla. Se prevedo la visita ad un malato, mi organizzerò per l’ora, le parole di consolazione da dirgli, gli aiuti da portare, e così per gli altri casi.

Dopo di ciò, umiliati davanti a Dio e riconosci che da sola nulla potresti fare di quanto ti sei proposta, sia per fuggire il male che per operare il bene.

E come se tu avessi il cuore in mano, offrilo con tutti i propositi alla Maestà divina e supplicala di prenderti sotto la sua protezione per portare a compimento le tue iniziative; per far questo serviti delle seguenti parole o di simili: Signore, eccoti questo povero e miserabile cuore che, per tua bontà ha avuto buoni affetti; ma è troppo debole e insignificante per riuscire a fare il bene che vorrebbe, se non lo sostieni con la tua celeste benedizione; io te la chiedo, Padre buono, per i meriti della Passione di tuo Figlio, al quale io consacro questa giornata e tutta la vita.

Invoca la Madonna, il tuo Angelo e i Santi, perché ti stiano vicini.

Ma tutte queste operazioni spirituali devono essere fatte brevemente e con vivacità, possibilmente prima di uscire dalla camera, affinché, in forza di questo esercizio, tutto quello che farai nel corso della giornata, sia coperto dalla benedizione di Dio.

Ti prego, Filotea, non trascurarlo mai!

sabato 25 febbraio 2012

Il Sabato dei Salmi - Salmo 93 - Il Dio maestoso

Salmo 93   

Il Dio maestoso 
[1]Il Signore regna, si ammanta di splendore;
il Signore si riveste, si cinge di forza;
rende saldo il mondo, non sarà mai scosso.
[2]Saldo è il tuo trono fin dal principio,
da sempre tu sei. 

[3]Alzano i fiumi, Signore,
alzano i fiumi la loro voce,
alzano i fiumi il loro fragore.
[4]Ma più potente delle voci di grandi acque,
più potente dei flutti del mare,
potente nell'alto è il Signore.
[5]Degni di fede sono i tuoi insegnamenti,
la santità si addice alla tua casa
per la durata dei giorni, Signore. 


Commento dal sito: http://www.padrelinopedron.it

È un inno entusiastico a Dio re dell’universo. Il Signore parla attraverso il creato, contemplato con amore, e attraverso la sua parola-legge. Questo Dio immenso, onnipotente e invincibile, è vicino a Israele, è presente nel tempio di Gerusalemme. 


Egli è il vincitore delle forze cosmiche, il sovrano del mondo, il re che garantisce l’ordine morale con le sue leggi immutabili e infallibili.


L’annuncio del regno di Dio è un tema centrale del vangelo. Gesù è asceso al cielo per partecipare personalmente al potere regale di Dio Padre: "Il regno del mondo appartiene al Signore nostro e al suo Cristo: egli regnerà nei secoli dei secoli" (Ap 11,15).


Commento dei Padri della Chiesa


v. 1 «Il Verbo di Dio ha distrutto il dominio della morte con la sua morte e la sua risurrezione, e regna su tutte le nazioni; lo Spirito santo ci convoca a cantare in coro: "Il Signore ha instaurato il suo regno, si è rivestito di splendore". Nella sua incarnazione e morte aveva rivestito l’umiliazione: "Non ha apparenza né bellezza..." (Is 53,2). Ma quando ha ripreso la sua gloria, che aveva da sempre presso il Padre, "ha trasfigurato il corpo della nostra miseria" (Fil 3,21) e rivestito lo splendore. "Si è rivestito" rivela che ci fu un tempo in cui se n’era spogliato. Così pure è stato crocifisso perché aveva scelto la debolezza (cfr. 2Cor 13,4), ma, dopo aver vinto la morte e preso possesso del suo regno, il Signore si è rivestito di potenza e si è cinto di forza. Avendo dunque rivestito la propria potenza, della quale si è cinto, affronta una grande impresa: rende saldo il mondo, non sarà mai scosso. Egli ha, infatti, risollevato questa terra che era quasi precipitata negli inferi, dominata com’era dai demoni, l’ha di nuovo consolidata, dopo aver sgominato le potenze avverse. Nella persona della chiesa, fondata sulla roccia e invincibile ai demoni, ha reso salva la terra al punto che mai più si lascerà distogliere dall’amore di Dio» (Eusebio).


"Questo salmo canta il desiderio della vittoria del Cristo sulla morte. Il Cristo ha vinto la morte, e in se stesso ha tracciato per tutti i morti la via che va dalla morte alla risurrezione. Il Signore ha assunto la nostra forma e s’è rivestito della nostra umiliazione, rivestendo la forma di schiavo; poi di nuovo ha ripreso il suo regno, s’è rivestito del suo splendore e s’è cinto di potenza. Ha ristabilito così la natura disgregata dal peccato, perché non le accada più di essere sconvolta e agitata dalle tempeste che s’alzano dal peccato. Non c’è dubbio: tutto questo inno si addice a colui che sale tra le acclamazioni (cfr. Sal 47,6)" (Gregorio di Nissa).


"Quando il Cristo è risalito al Padre dopo la sua risurrezione, ha rivestito la maestà che gli competeva e la potenza che aveva fin dal principio, perché egli regna col Padre" (Cirillo di Alessandria).


«Il profeta esclama: Regna, rivestito di splendore! Non che il Cristo abbia assunto ciò che non possedeva, ha solo manifestato ciò che già possedeva: "E ora Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse" (Gv 17,5). Così anche per la potenza. Il profeta lo descrive come un re che riveste le sue armi, si orna della cintura e combatte contro il nemico. Rende, così, saldo il mondo perché non sia scosso» (Teodoreto).


"Avendo gettato fuori il principe di questo mondo, attira tutti a sé (cfr. Gv 12,31-32)" (Ruperto).


"Prima della redenzione tutto vacillava. La sua risurrezione ha reso saldo tutto" (Girolamo).


v. 2 «Il tuo trono era preparato prima dei secoli, perché tu esisti prima dei secoli, "primizia delle vie del Signore" (Pr 8,22 ss.). E quando ti sei annientato per assumere la forma di schiavo, il tuo trono era custodito pronto, perché a te solo il Padre ha detto: "Siedi alla mia destra finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi" (Sal 110,1)» (Eusebio).


"Il trono simboleggia la risurrezione, il compimento del disegno eterno di Dio e anche la potestà di giudizio del Cristo" (Atanasio).


vv. 3-4 "Di fronte ai fiumi santi stanno le potenze avverse che innalzano e gonfiano i loro flutti di orgoglio, ma li abbassano alla voce delle acque sante. C’erano tra gli uomini la sapienza di questo mondo e la prudenza della carne, che si ergevano con arroganza; ma quando le chiese di Dio furono stabilite tanto presso i greci quanto presso i barbari, e questa immensa moltitudine cantò a gran voce le lodi di Dio, fu come la voce delle acque universali. Allora la gonfiezza che era chiamata sapienza scomparve, tutta l’arroganza cadde perché la loro sapienza fu svalutata... Il Signore è più potente dei flutti del mare: chi si affida a lui non ha quindi nulla da temere dalle tempeste del mare, fossero pure la persecuzione. Sono ondeggiamenti sollevati dal drago che abita il mare: apre la gola, grida, vomita acqua per sommergere la chiesa di Dio (cfr. Ap 12,15)" (Eusebio).


v. 5 «Le profezie che rendevano testimonianza al futuro regno del Signore sono state verificate dall’evento compiuto. Un tempo si annunziava: Il Signore si è rivestito di splendore. Ora si è manifestata la verità della predicazione: egli ha raggiunto il trono del Padre suo, regna sul cielo e sulla terra, la sua chiesa è salda nel mondo intero e i fiumi alzano la voce, in rendimento di grazie, preghiere e inni di lode. Quanto alla "tua casa", cioè la chiesa, nulla le si addice meglio della santità, per rimanere salda attraverso i secoli. Ciò che è proprio alle tue testimonianze è la verità; ciò che è proprio alla tua casa è la santità. Se, Dio non voglia, l’indecenza e l’empietà si vedessero un giorno nella casa di Dio, Dio che abita in essa, che è il Santo e riposa nei santi, direbbe: "La vostra casa vi sarà lasciata deserta" (Mt 23,38)» (Eusebio).


"Le testimonianze sono le promesse fatte ai profeti e compiute con la venuta del Cristo" (Atanasio).
"La casa di Dio è l’anima pura" (Origene).


"La chiesa è abitata da colui che solo è santo" (Atanasio).


"È sulla croce che il Signore ha preso possesso del suo regno. Perché rivestì, in piena potenza, l’infermità, cinse l’eternità e rese saldo il mondo con la sua risurrezione. Aveva pronto il suo trono, salì al cielo alla destra del Padre" (Arnobio il giovane).


giovedì 23 febbraio 2012

Catechismo della Chiesa Cattolica - LXV

Proseguiamo il percorso volto alla conoscenza del Catechismo della Chiesa Cattolica. Iniziamo oggi la lettura dell'Articolo 3 sull'importante Sacramento dell'Eucarestia:



PARTE SECONDA  
LA CELEBRAZIONE DEL MISTERO CRISTIANO

SEZIONE SECONDA 
«I SETTE SACRAMENTI DELLA CHIESA»

CAPITOLO PRIMO 
I SACRAMENTI DELL'INIZIAZIONE CRISTIANA

ARTICOLO 3 
IL SACRAMENTO DELL'EUCARISTIA

1322 La santa Eucaristia completa l'iniziazione cristiana. Coloro che sono stati elevati alla dignità del sacerdozio regale per mezzo del Battesimo e sono stati conformati più profondamente a Cristo mediante la Confermazione, attraverso l'Eucaristia partecipano con tutta la comunità allo stesso sacrificio del Signore.


1323 « Il nostro Salvatore nell'ultima Cena, la notte in cui veniva tradito, istituì il sacrificio eucaristico del suo Corpo e del suo Sangue, col quale perpetuare nei secoli, fino al suo ritorno, il sacrificio della croce, e per affidare così alla sua diletta Sposa, la Chiesa, il memoriale della sua morte e risurrezione: sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità, convito pasquale, nel quale si riceve Cristo, l'anima viene ricolmata di grazia e viene dato il pegno della gloria futura ». 143


I. L'Eucaristia - fonte e culmine della vita ecclesiale


1324 L'Eucaristia è « fonte e culmine di tutta la vita cristiana ». 144 « Tutti i sacramenti, come pure tutti i ministeri ecclesiastici e le opere di apostolato, sono strettamente uniti alla sacra Eucaristia e ad essa sono ordinati. Infatti, nella santissima Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua ». 145


1325 « La comunione della vita divina e l'unità del popolo di Dio, su cui si fonda la Chiesa, sono adeguatamente espresse e mirabilmente prodotte dall'Eucaristia. In essa abbiamo il culmine sia dell'azione con cui Dio santifica il mondo in Cristo, sia del culto che gli uomini rendono a Cristo e per lui al Padre nello Spirito Santo ». 146


1326 Infine, mediante la celebrazione eucaristica, ci uniamo già alla liturgia del cielo e anticipiamo la vita eterna, quando Dio sarà « tutto in tutti » (1 Cor 15,28).


1327 In breve, l'Eucaristia è il compendio e la somma della nostra fede: « Il nostro modo di pensare è conforme all'Eucaristia, e l'Eucaristia, a sua volta, si accorda con il nostro modo di pensare ». 147



II. Come viene chiamato questo sacramento?


1328 L'insondabile ricchezza di questo sacramento si esprime attraverso i diversi nomi che gli si danno. Ciascuno di essi ne evoca aspetti particolari. Lo si chiama:


Eucaristia, perché è rendimento di grazie a Dio. I termini ,ÛP"- D4FJ,< (Lc 22,19; 1 Cor 11,24) e ,Û8@(,< (Mt 26,26; Mc 14,22) ricordano le benedizioni ebraiche che – soprattutto durante il pasto – proclamano le opere di Dio: la creazione, la redenzione e la santificazione.


1329 Cena del Signore, 148 perché si tratta della Cena che il Signore ha consumato con i suoi discepoli la vigilia della sua passione e dell'anticipazione della cena delle nozze dell'Agnello 149 nella Gerusalemme celeste.


Frazione del pane, perché questo rito, tipico della cena ebraica, è stato utilizzato da Gesù quando benediceva e distribuiva il pane come capo della mensa, 150 soprattutto durante l'ultima Cena. 151 Da questo gesto i discepoli lo riconosceranno dopo la sua risurrezione, 152 e con tale espressione i primi cristiani designeranno le loro assemblee eucaristiche. 153 In tal modo intendono significare che tutti coloro che mangiano dell'unico pane spezzato, Cristo, entrano in comunione con lui e formano in lui un solo corpo. 154


Assemblea eucaristica (Fb<">4H), in quanto l'Eucaristia viene celebrata nell'assemblea dei fedeli, espressione visibile della Chiesa. 155


1330 Memoriale della passione e della risurrezione del Signore.


Santo sacrificio, perché attualizza l'unico sacrificio di Cristo Salvatore e comprende anche l'offerta della Chiesa; o ancora santo sacrificio della Messa, « sacrificio di lode » (Eb 13,15), 156 sacrificio spirituale, 157 sacrificio puro 158 e santo, poiché porta a compimento e supera tutti i sacrifici dell'Antica Alleanza.


Santa e divina liturgia, perché tutta la liturgia della Chiesa trova il suo centro e la sua più densa espressione nella celebrazione di questo sacramento; è nello stesso senso che lo si chiama pure celebrazione dei santi misteri. Si parla anche del Santissimo Sacramento, in quanto costituisce il sacramento dei sacramenti. Con questo nome si indicano le specie eucaristiche conservate nel tabernacolo.


1331 Comunione, perché, mediante questo sacramento, ci uniamo a Cristo, il quale ci rende partecipi del suo Corpo e del suo Sangue per formare un solo corpo; 159 viene inoltre chiamato le cose sante (« J ž(4"; sancta ») 160 – è il significato originale dell'espressione « comunione dei santi » di cui parla il Simbolo degli Apostoli –, pane degli angeli, pane del cielo, farmaco d'immortalità, 161 viatico...


1332 Santa Messa, perché la liturgia, nella quale si è compiuto il mistero della salvezza, si conclude con l'invio dei fedeli (« missio ») affinché compiano la volontà di Dio nella loro vita quotidiana.


mercoledì 22 febbraio 2012

Verità della Fede - LVI e ultimo appuntamento

Si conclude quest'oggi "Verità della Fede", una delle più grandi opere letterarie di Sant'Alfonso Maria de' Liguori.  Concludiamo con delle esortazioni e preghiere da parte del Santo Vescovo, Dottore della Chiesa e Fondatore dei Redentoristi:





Verità della Fede

di Sant'Alfonso Maria de' Liguori

PARTE TERZA


CONTRO I SETTARJ CHE NEGANO LA CHIESA CATTOLICA ESSERE L'UNICA VERA


CAP. XI. Conclusione dell'opera.


Esortazione a' zelanti della fede di Gesù Cristo.

O fedeli, voi che amate Gesù Cristo, guardate la persecuzione che sta soffrendo la sua chiesa da tanti increduli, che, non contenti di esser soli a perdersi, cercano colla penna e colla voce di pervertire anche gli altri, per aver compagni nella lor perdizione; e perciò si affaticano a spargere dappertutto, fin nella nostra Italia, i loro pestiferi libri, che letti da' poveri giovani o per curiosità d'intendere cose nuove, o per desiderio di maggior libertà ne' loro disordini s'imbeono del lor veleno, e così poi si abbandonano senza ritegno ad ogni sorta di vizj. Deh voi che zelate il bene della fede, cooperatevi con tutte le vostre forze, predicando, ammonendo, istruendo e gridando, affin di estirpare questa gran peste dal mondo. Voi mi direte che a ciò non bastano le forze umane. Avete ragione, così è; vi bisogna il braccio divino. Ma perciò avremo a restarcene così oziosi, intenti solamente ad osservare e piangere i danni sì deplorabili della chiesa, senza far altro? Se non siamo noi valevoli a porvi riparo, ben può farci tali Iddio, ch'è onnipotente. Ma Dio vuol esser pregato. Egli ha promesso di esaudir chi lo prega. Ecco dunque ciò che noi possiamo e dobbiamo fare: alle prediche, alle ammonizioni, alle istruzioni ed alle grida aggiungiamo le preghiere a Dio, supplicandolo continuamente, e per così dire importunandolo colle nostre lagrime, acciocché egli per sua misericordia ponga rimedio alla strage di anime, che per tal via ne' tempi presenti sta facendo l'inferno. Preghiamolo dunque, e diciamogli con Davide (Psalm. 79):

Preghiera per il bene della santa chiesa.

Deus virtutum, ostende faciem tuam, et salvi erimus: O Signore e Dio delle virtù, deh volgete sopra di noi il vostro volto benigno, e salvateci: Vineam de Aegypto transtulisti, reiecisti gentes, et plantasti eam: Voi avete dal mondo discacciata l'idolatria, e vi avete piantata la vigna della vostra santa chiesa. Plantasti radices eius, et implevit terram, e l'avete così ben piantata, che la fede da lei insegnata fu abbracciata un tempo da tutte le parti del mondo, in modo che ben si vede adorata la croce di Gesù Cristo ed avverata questa predizione, che la vostra santa fede avrebbe riempiuta tutta la terra. Ma poi exterminavit eam aper de sylva, et singularis ferus depastus est eam: l'eresia, bestia feroce uscita dalla selva dell'inferno, l'ha devastata; e crescendo poi lo sterminio ne' secoli vegnenti, ecco che al presente, eccettuati pochi dominj in Europa, in tutti gli altri non può dirsi che regni più la fede, ma vi regna o l'infedeltà o l'eresia. E quel che ora è peggio, e per cui piange più amaramente la chiesa, è il vedere che ancora in alcuni regni, ove la fede era rimasta illesa, si è veduta quivi ancora perseguitata dagli increduli. Deus virtutum, convertere, respice de coelo, et vide, et visita vineam istam: Deh per pietà rivolgetevi, e mirate dal cielo come sta deformata la vostra vigna! Vide, et visita vineam istam, et perfice eam, quam plantavit dextera tua: Guardatela, visitatela e ristoratela voi dai danni che ha ricevuti, e tuttavia riceve da' suoi nemici, che disprezzano e mettono in deriso ogni cosa, la vostra chiesa, le vostre scritture, i vostri precetti, le vostre massime e tutte insomma le vostre verità. Ricordatevi ch'ella è stata piantata dalle vostre mani. Et super filium hominis, quem confirmasti tibi. Ricordatevi, o eterno Padre, che il vostro diletto Figlio per ubbidirvi, e formar questa vigna secondo il vostro volere, si è fatto figliuol dell'uomo, e l'ha piantata coi sudori e stenti di tutta la sua vita. Per amore dunque di Gesù vostro Figlio vi preghiamo ad esaudirci,ut ecclesiam tuam sanctam regere et conservare; utque inimicos sanctae ecclesiae humiliare digneris, te rogamus, audi nos.

E voi, Verbo incarnato, Salvatore del mondo, che colla vostra morte avete procurata agli uomini la salute, come presso di questi uomini stessi potete ritrovar tanta ingratitudine, che non solo ricusano di ubbidirvi e di amarvi, ma giungono anche a negare la morte ed i patimenti che per essi voi avete sofferti? Voi attendete sempre al loro bene; ed essi dicono che voi non vi prendete di loro alcun pensiero! Voi gli avete creati immortali per rendersi eternamente felici; ed essi studiano affin di persuadersi che son mortali, per vivere ne' vizj senza freno, e così rendersi eternamente infelici! Deh per li meriti della vostra vita e morte tuis famulis subveni, quos pretioso sanguine redemisti, soccorrete a' vostri servi, e non permettete che l'empietà de' vostri nemici abbia a trionfare della perdita di tante anime redente col vostro sangue: Dominare in medio inimicorum tuorum.

A voi ancora ci rivolgiamo, o regina del cielo Maria, che, essendo la creatura più amante di Dio, siete quella che più amate la sua chiesa. Deh impegnatevi voi a sollevarla dai danni, in cui ora la vedete ridotta e combattuta da' suoi medesimi figli. Le vostre preghiere, perché son preghiere di madre, ottengono quanto chiedono da quel Dio che tanto vi ama. Pregate dunque, pregate per la chiesa del vostro Figlio, impetrate lume a tanti miscredenti che la perseguitano, ed ottenete fortezza a' fedeli per non lasciarsi prevaricare dalle loro insidie, e restar perduti nella loro rovina.

domenica 19 febbraio 2012

Filotea: Introduzione alla vita devota - XXXIII

Proseguiamo l'appuntamento con Filotea: Introduzione alla vita devota di San Francesco di Sales. Continuiamo la lettura dei capitoli incentrati sulle meditazioni. Quello odierno continua a contenere consigli utili:





FILOTEA
Introduzione alla vita devota

(San Francesco di Sales)



SECONDA PARTE

Contiene diversi consigli per l’elevazione dell’anima a Dio per mezzo dell’Orazione e dei Sacramenti.



Capitolo IX


LE ARIDITA' CHE CI AFFLIGGONO NELLE MEDITAZIONI



Se ti capita, o Filotea, di non provare alcuna attrattiva né alcuna consolazione nella meditazione, ti prego di non agitarti, ma apri la porta alle preghiere vocali: lamentati di te stessa con Nostro Signore, confessa la tua indegnità, pregalo di aiutarti, bacia la sua immagine, rivolgigli le parole di Giacobbe: Io non ti lascio, Signore, finché tu non mi abbia benedetto; o quelle della Cananea: Sì, Signore, io sono un cane, ma i cani mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei padroni. Altre volte prendi un libro e leggilo con attenzione fino a che il tuo spirito si riprenda pienamente; qualche volta sprona il cuore con atti e movimenti di devozione esteriore: prostrati per terra, metti le mani in croce sul petto, abbraccia il Crocifisso; questo, si capisce, se ti trovi in luogo appartato.

E se, dopo tutto ciò, sei come prima, per quanto grande sia la tua aridità, non avvilirti, ma rimani con devoto contegno davanti a Dio. Quanti cortigiani, nel corso dell’anno, fanno cento volte l’anticamera del principe senza speranza di potergli parlare, ma soltanto per essere visti da lui e compiere il loro dovere. Così, mia cara Filotea, noi dobbiamo recarci all’orazione semplicemente per compiere il nostro dovere e dimostrare la nostra fedeltà. Che se poi piace alla divina Maestà di rivolgerci la parola e fermarsi con noi con le sue sante ispirazioni e consolazioni interiori, questo sarà per noi un grande onore e motivo di un piacere delizioso; ma se non ci fa questa grazia, non rivolgendoci la parola, come se non ci vedesse e come se non fossimo alla sua presenza, non per questo dobbiamo andarcene, anzi, al contrario, dobbiamo rimanere lì, davanti alla somma Bontà, con un contegno devoto e sereno; gradirà molto la nostra pazienza e noterà la nostra fedeltà e la nostra perseveranza; e quando ritorneremo davanti a Lui, ci favorirà e si fermerà con noi con le sue consolazioni, facendoci assaporare tutto il fascino dell’orazione.

Ma anche se non dovesse farlo, accontentiamoci, Filotea; è già un grandissimo onore trovarci presso di Lui, al suo cospetto.

sabato 18 febbraio 2012

Il Sabato dei Salmi - Salmo 92 - Cantico del giusto

Salmo 92   

Cantico del giusto 
[1]Salmo. Canto. Per il giorno del sabato. 

[2]E' bello dar lode al Signore
e cantare al tuo nome, o Altissimo,
[3]annunziare al mattino il tuo amore,
la tua fedeltà lungo la notte,
[4]sull'arpa a dieci corde e sulla lira,
con canti sulla cetra.
[5]Poiché mi rallegri, Signore, con le tue meraviglie,
esulto per l'opera delle tue mani. 

[6]Come sono grandi le tue opere, Signore,
quanto profondi i tuoi pensieri!
[7]L'uomo insensato non intende
e lo stolto non capisce:
[8]se i peccatori germogliano come l'erba
e fioriscono tutti i malfattori,
li attende una rovina eterna:
[9]ma tu sei l'eccelso per sempre, o Signore. 

[10]Ecco, i tuoi nemici, o Signore,
ecco, i tuoi nemici periranno,
saranno dispersi tutti i malfattori.
[11]Tu mi doni la forza di un bùfalo,
mi cospargi di olio splendente.
[12]I miei occhi disprezzeranno i miei nemici,
e contro gli iniqui che mi assalgono
i miei orecchi udranno cose infauste. 

[13]Il giusto fiorirà come palma,
crescerà come cedro del Libano;
[14]piantati nella casa del Signore,
fioriranno negli atri del nostro Dio.
[15]Nella vecchiaia daranno ancora frutti,
saranno vegeti e rigogliosi,
[16]per annunziare quanto è retto il Signore:
mia roccia, in lui non c'è ingiustizia. 




Commento dal sito: http://www.padrelinopedron.it

Il salmista è un uomo animato da profonda riconoscenza. Le ore luminose della sua vita sono per lui occasione per dare gloria a Dio. Tutta la storia della salvezza diviene per lui motivo di lode. Egli si sente incorporato nella comunità dei credenti e vuole illuminarla con la propria testimonianza indicandole mediante il suo canto che la lode è pienezza di vita.


L’opera di salvezza di Dio, che è il tema di questo salmo, ha raggiunto il culmine nella risurrezione e nella glorificazione di Gesù. Noi, come credenti, attraverso questo salmo guardiamo al Cristo, nel quale ciò che si dice dei giusti salvati ed elevati (vv. 11-16) ha trovato un compimento totale.


Commento dei Padri della Chiesa


v. 2 "Dobbiamo lodare il Signore per l’opera del Figlio unigenito che ha preparato la nostra risurrezione" (Atanasio).


v. 3 "Non si debbono separare i due stichi di questo versetto. Si tratta di annunciare giorno e notte la misericordia che è il Cristo, la verità che è il Cristo" (Cirillo di Alessandria).


v. 4 "Quelli che operano il bene in tristezza non sono ancora nel canto. Chi, dunque, canta? Colui che dà con gioia (cfr. 2Cor 9,7). Tutto quello che fai, fallo sorridendo" (Agostino).


v. 5 "Ciò che ha fatto e che ci rallegra è questo giorno stesso in cui noi ci rallegriamo: il giorno della risurrezione del Signore. In questo giorno, se leggi bene la Bibbia, il Signore non ha fatto nient’altro che il giorno: era la prima domenica (= giorno del Signore), della quale ora diciamo: Mi rallegri, Signore, con le tue meraviglie; esulto per l’opera delle tue mani" (Eusebio).


«L’opera per eccellenza di Dio è: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16)» (Cirillo di Alessandria).


v. 6 "Nessun oceano è tanto profondo come questo mistero: i malvagi esultano e i buoni soffrono. Qui naufraga chiunque non ha la fede. Vuoi superare questo abisso sano e salvo? Aggrappati alla croce del Cristo: lui stesso ha scelto di penare sulla terra... Tu dirai: Dio è paziente perché è eterno, ma io non lo sono! Attacca il tuo cuore all’eternità di Dio" (Agostino).


v. 7 "Non comprendono il mistero del Cristo se non coloro ai quali il Padre stesso lo rivela (cfr. Mt 11,27)" (Cirillo di Alessandria).


"L’uomo insensato è estraneo alla sapienza divina" (Cassiodoro).


v. 9 "Il Verbo di Dio è l’Altissimo anche quando si fa povero per arricchirci (cfr. 2Cor 8,9)" (Cirillo di Alessandria).


v. 10 "Il nemico diventa amico: non esiste più come nemico perché Dio ha distrutto l’inimicizia" (Origene).


v. 13 "Mentre i peccatori sono come il fieno presto appassito, il giusto (il Cristo) fiorirà come palma, con una corona di rami che sale fino al cielo" (Eusebio).


"La palma è scelta come paragone perché cresce dritta verso il cielo e la sua bellezza è in alto" (Agostino).


v. 14 "La casa del Signore è la chiesa (cfr. 1Tm 3,15)" (Eusebio).


"La casa del Signore è la Gerusalemme celeste" (Atanasio).


vv. 15-16 "Godranno dei beni del Signore e nel loro riposo annunceranno che il Signore è retto e in lui non c’è ingiustizia, perché vedranno i buoni ricompensati e i malvagi puniti. Lo stolto e l’insensato non conoscono tutto questo, ma io, illuminato dallo Spirito e considerando quanto profondi sono i giudizi di Dio (cfr. Rm 11,33), mi rallegro ed esulto per l’economia divina; sopporto con coraggio i mali presenti nella speranza dei beni futuri: consacro tutto il mio tempo disponibile a celebrare Dio, a cantare il suo nome, ad annunciare la sua misericordia e la sua verità lungo la notte; infatti l’anima religiosa fa risplendere la verità di Dio soprattutto quando soffre nelle tenebre e nell’oscurità" (Eusebio).


"Ora è il tempo di annunciare a tutti, anche agli sventurati che amano questo mondo: Non lasciatevi sedurre dalla felicità visibile! Quelli che celebrano Dio proclamano: Retto è il Signore e in lui non c’è ingiustizia" (Agostino).


giovedì 16 febbraio 2012

Catechismo della Chiesa Cattolica - LXIV

Proseguiamo l'appuntamento volto alla conoscenza del Catechismo della Chiesa Cattolica. Concludiamo la lettura dell'Articolo incentrato sul Sacramento della Confermazione o Cresima:



PARTE SECONDA  
LA CELEBRAZIONE DEL MISTERO CRISTIANO

SEZIONE SECONDA 
«I SETTE SACRAMENTI DELLA CHIESA»

CAPITOLO PRIMO 
I SACRAMENTI DELL'INIZIAZIONE CRISTIANA

ARTICOLO 2 
IL SACRAMENTO DELLA CONFERMAZIONE

V. Il ministro della Confermazione


1312 Ministro originario della Confermazione è il Vescovo. 138


In Oriente, è ordinariamente il presbitero che battezza a conferire subito anche la Confermazione in una sola e medesima celebrazione. Tuttavia lo fa con il sacro crisma consacrato dal Patriarca o dal Vescovo: ciò esprime l'unità apostolica della Chiesa, i cui vincoli vengono rafforzati dal sacramento della Confermazione. Nella Chiesa latina si attua la stessa disciplina nel Battesimo degli adulti, o quando viene ammesso alla piena comunione con la Chiesa un battezzato che appartiene ad un'altra comunità cristiana il cui sacramento della Confermazione non è valido. 139


1313 Nel rito latino, il ministro ordinario della Confermazione è il Vescovo. 140 Sebbene, qualora se ne presenti la necessità, il Vescovo possa concedere ai presbiteri la facoltà di amministrare la Confermazione, 141 è opportuno che la conferisca egli stesso, non dimenticando che appunto per questa ragione la celebrazione della Confermazione è stata separata temporalmente dal Battesimo. I Vescovi sono i successori degli Apostoli, essi hanno ricevuto la pienezza del sacramento dell'Ordine. Il fatto che questo sacramento venga amministrato da loro evidenzia che esso ha come effetto di unire più strettamente coloro che lo ricevono alla Chiesa, alle sue origini apostoliche e alla sua missione di testimoniare Cristo.


1314 Se un cristiano si trova in pericolo di morte, qualsiasi presbitero può conferirgli la Confermazione. 142 La Chiesa infatti vuole che nessuno dei suoi figli, anche se in tenerissima età, esca da questo mondo senza essere stato reso perfetto dallo Spirito Santo mediante il dono della pienezza di Cristo.


In sintesi


1315 « Gli Apostoli, a Gerusalemme, seppero che la Samaria aveva accolto la parola di Dio e vi inviarono Pietro e Giovanni. Essi discesero e pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era infatti ancora sceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo » (At 8,14-17).


1316 La Confermazione perfeziona la grazia battesimale; è il sacramento che dona lo Spirito Santo per radicarci più profondamente nella filiazione divina, incorporarci più saldamente a Cristo, rendere più solido il nostro legame con la Chiesa, associarci maggiormente alla sua missione e aiutarci a testimoniare la fede cristiana con la parola accompagnata dalle opere.


1317 La Confermazione, come il Battesimo, imprime nell'anima del cristiano un segno spirituale o carattere indelebile; perciò si può ricevere questo sacramento una sola volta nella vita.


1318 In Oriente questo sacramento viene amministrato immediatamente dopo il Battesimo; è seguito dalla partecipazione all'Eucaristia; questa tradizione sottolinea l'unità dei tre sacramenti dell'iniziazione cristiana. Nella Chiesa latina questo sacramento viene conferito quando si è raggiunta l'età della ragione, e la sua celebrazione è normalmente riservata al Vescovo, significando così che questo sacramento rinsalda il legame ecclesiale.


1319 Un candidato alla Confermazione che abbia raggiunto l'età della ragione deve professare la fede, essere in stato di grazia, aver l'intenzione di ricevere il sacramento ed essere preparato ad assumere il proprio ruolo di discepolo e di testimone di Cristo nella comunità ecclesiale e negli impegni temporali.


1320 Il rito essenziale della Confermazione è l'unzione con il sacro Crisma sulla fronte del battezzato (in Oriente anche su altre parti del corpo), accompagnata dall'imposizione delle mani da parte del ministro e dalle parole: « Accipe signaculum doni Spiritus Sancti » – « Ricevi il sigillo dello Spirito Santo che ti è dato in dono », nel rito romano, « Signaculum doni Spiritus Sancti » – « Sigillo del dono dello Spirito Santo », nel rito bizantino.


1321 Quando la Confermazione viene celebrata separatamente dal Battesimo, il suo legame con questo è espresso, tra l'altro, dalla rinnovazione delle promesse battesimali. La celebrazione della Confermazione durante la liturgia eucaristica contribuisce a sottolineare l'unità dei sacramenti dell'iniziazione cristiana. 


mercoledì 15 febbraio 2012

Verità della Fede - LV

Tornano gli approfondimenti sulle "Verità della Fede" attraverso le attente analisi di Sant'Alfonso Maria de' Liguori. Proseguiamo la lettura della seconda parte dell'ultimo capitolo nel quale si confuta un libro francese "velenoso" come a dire dell'autore:





Verità della Fede

di Sant'Alfonso Maria de' Liguori

PARTE TERZA


CONTRO I SETTARJ CHE NEGANO LA CHIESA CATTOLICA ESSERE L'UNICA VERA


CAP. XI. Conclusione dell'opera.

Confutazione del libro francese intitolato dello Spirito (de l'Esprit) condannato nell'anno 1759 dal regnante pontefice Clemente XIII.



1. Nel principio di questo libro io ritrovo una ritrattazione di Elvezio, che n'è stato l'autore, ove dice ch'egli avea data fuori quest'opera con semplicità, non intendendo di attaccare alcuna verità cattolica, né avvertendo alle conseguenze orribili che ne risultavano; e perciò dichiara ch'egli condannava quello che ha scritto, e che anzi desiderava di vederne la soppressione. Io voglio sperare che Elvezio abbia fatto di cuore questa sua dichiarazione; del resto o egli abbia scritto in buona o mala fede, o abbia parlato da filosofo, come dice, o da cristiano, o abbia discorso per ipotesi o per tesi, il certo si è che fra gli altri libri velenosi, che sono usciti a' giorni nostri, il suo può dirsi il più pestifero, mentre esso quasi contiene gli errori di tutti gi altri. E perciò con ragione è stato condannato dal sommo pontefice, dall'arcivescovo di Parigi monsignor Beaumont e dalla Facoltà della Sorbona. Per tanto avendo io inteso che questo perniciosissimo libro girava per le mani di molti anche nella nostra città di Napoli, ho stimato bene di confutarne gli errori principali, e prima di tutto i suoi due falsissimi principj da cui nascono mille erronee conseguenze. Ho detto gli errori principali, perché, se volessi confutarli tutti, mi bisognerebbe confutare quasi ogni parola dell'opera.


2. Il primo principio di Elvezio2, da lui chiamato ipotesi, è quello della sensibilità fisica. Dice che noi abbiam la potenza passiva della sensibilità fisica, ch'è la facoltà di ricevere le differenti impressioni che gli oggetti esterni fanno sopra di noi. E questa facoltà

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passiva egli chiama causa produttrice de' nostri pensieri. Posto ciò, par che non siavi differenza tra l'anima degli uomini e l'anima de' bruti; e ciò egli non ripugna di confermarlo, dicendo che questa facoltà è a noi comune colle bestie. Dunque qual differenza vi è fra noi e le bestie? Egli risponde che la differenza sta in una certa organizzazione esteriore. E poi dice: Se la natura in vece di mani e di dita flessibili avesse terminato il collo con un piè di cavallo, chi ne dubita che gli uomini senza arti, senza tetto, senza difesa contro gli animali, occupati unicamente nella cura di procacciarsi il cibo, e difendersi dalle bestie feroci, non fossero erranti ancora nelle foreste, come una mandra fuggitiva1? Sicché un uomo, secondo Elvezio, non differisce da un cavallo, se non che nell'avere l'uomo le mani, e 'l cavallo le zampe?


3. Dunque se il cavallo avesse le mani, avrebbe l'intendimento come l'uomo? Elvezio sembra che neppur ripugni di affermarlo; mentre dice che il cavallo, perché ha le zampe e non le mani, resta privato dell'industria necessaria a maneggiare qualche strumento ed a fare alcune scoperte che suppongono le mani. Dunque se ad un uomo mancassero le mani, ed in vece di quelle avesse le zampe, egli sarebbe simile ad un cavallo? E quelle operazioni e scoperte che suppongono le mani, ben potrebbero farsi dalle bestie, se esse avessero le mani; in modo che, se qualche bestia avesse le mani, potrebbe comporre oruoli a sole, giuocare agli scacchi, e far cose simili? Ma impariamo da questo filosofo le altre ragioni perché le bestie non pensano e non discorrono, come pensa e discorre l'uomo; eccole: La vita degli animali, dice, generalmente è più breve che la nostra; perciò non permette loro far tante osservazioni, né per conseguenza aver tante idee, quante ne ha l'uomo. Dunque, se un cavallo vivesse cinquanta anni, potrebbe diventare un gran dottore, un gran filosofo, un gran ministro di stato? L'altra ragione che aggiunge è che l'uomo è l'animale più moltiplicato sopra la terra. Ora, dice, quanto più la specie di un animale capace di osservazioni è moltiplicata, tanto più questa specie di animale abbonda d'idee e di spirito. Dunque, se gli uomini fossero in minor numero de' cavalli, gli uomini sarebbero più bestie che non sono i cavalli? E se all'incontro i cavalli fossero in maggior numero degli uomini, sarebbero più dotti e più eruditi degli uomini? Tutte queste son conseguenze necessarie delle ragioni di Elvezio. Ha pensato bene quest'autore di assomigliare l'uomo col cavallo, perché il suo discorrere non è più che da cavallo. Ecco il bel filosofare de' filosofi moderni!


4. Ma rispondiamo di proposito, non da cavalli, ma da uomini a questo inettissimo principio di Elvezio della sensibilità fisica. Egli dice che la facoltà di pensare che ha l'uomo, non è altro che una facoltà passiva di ricevere le impressioni che ci fanno gli oggetti esterni. Dimandiamo di che intende parlare: del corpo o dello spirito dell'uomo? Concediamo che il corpo dell'uomo non è che una facoltà passiva di ricever le impressioni esterne (meglio però avrebbe detto qualità passiva e non facoltà, perché la facoltà spetta propriamente allo spirito che agisce); ma di queste impressioni esterne chi ne riceve la sensibilità fisica? Il corpo o l'anima dell'uomo? Il corpo no, perché la materia non è capace di sentire; le riceve l'anima che di senso è dotata. Ma andiamo avanti. Dopo che l'uomo ha ricevuta dagli oggetti esterni quella sensazione di piacere o di dolore che gli è avvenuta, egli, oltre il percepirla, vi riflette, la distingue dalle altre sensazioni, e poi giudica qual di loro sia più dilettevole o più dolorosa. Questo giudizio non è certamente sensibilità fisica, ma è operazione dello spirito. Non signore, risponde Elvezio; il giudicare non è altro che sentire. Ma erra; perché la sensazione viene dall'impressione; il giudizio poi non viene dalla sensazione

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ma si forma sopra la sensazione. Inoltre molti giudizi e riflessioni (siccome già notammo nella prima parte al capo VI. n. 6. ) si fan dall'uomo di cose pure spirituali e tutte diverse dalle sensazioni, come della verità, della bontà, della giustizia, del raziocinio, della contraddizione, della dimostrazione. Queste idee della verità, della bontà ecc., dimandiamo in qual organo del corpo si formano? Queste non son materia, onde non possono formarsi dalle impressioni materiali degli oggetti esterni. Elle dunque non sono sensibilità fisiche, ma pure intelligenze ed operazioni spirituali; e, se sono pure intelligenze, come possono formarsi dalle impressioni esterne, che sono materiali?


5. Elvezio, il quale ha studiato per diventar cavallo, ma non ha potuto giungere ad esserlo, comprende già la forza di questa ragione; ma con tutto ciò non si sgomenta, e prosiegue animosamente a dire che i giudizj che si fanno della giustizia, della bontà e simili, anche sono sensazioni. E come? Ecco come lo spiega: «Facciamo che vi siano tre tavole: sull'una sia dipinto un re giusto che fa morire un reo: nella seconda un re buono che fa trarre il reo da' ceppi, e lo ripone in libertà; nella terza questo stesso reo, che armato di un pugnale, uscendo dalla prigione, corre ad uccidere 50. cittadini; qual uomo alla veduta di queste tre tavole non sentirà che la giustizia, la quale colla morte di un solo previene la morte di 50. uomini, è in un re più pregevole che la bontà? E pure questo giudizio realmente non è altro che una sensazione.» Ma chi non vede la falsità evidente di questa conclusione? Quelle tre tavole altro non posson fare che dimostrar la loro grandezza, il lor colore; in modo che, se nell'uomo non vi fosse altro che sensibilità fisica, egli affatto non potrebbe giudicare quale sia l'atto di giustizia, quale l'atto di bontà e quale di crudeltà. Il giudicare che quelli siano atti di giustizia, di clemenza e di crudeltà si appartiene alla sola facoltà spirituale dell'anima; e per conseguenza è spirituale ancora il giudizio che fa l'uomo del doversi in tal caso preferire la giustizia alla bontà. Così discorre, dice il p. Valsecchi, ogni uomo, ch'è uomo, e non è cavallo.


6. Il principio dunque di Elvezio per concludere questo punto, è che in quanto al pensare, riflettere e discorrere non vi sia in noi altro che sensibilità fisica, cioè altra facoltà, che di ricevere le impressioni degli oggetti esterni; e questa facoltà dice esser comune anche ai bruti, dai quali solamente ci distinguiamo per la differente organizzazione dei membri. Tal principio distrugge la morale, la religione e la fede. Giacché, posto che il tutto nell'uomo si riduce al solo sentire, non vi può essere in esso più ragione: e se non v'è ragione, non vi è più libertà, non vi è più né merito, né demerito e per conseguenza né premio né castigo; poiché l'uomo, operando così, opera solo per istinto necessario, come operano le bestie. E posto che nell'uomo non vi è altro che sensazione, non vi può essere più né idea di Dio, né anima spirituale, né cognizione di legge, di virtù o di vizio, operandosi ogni cosa per impulso necessario, e terminando il tutto colla morte, nella quale l'anima, se fosse materiale, come la suppone Elvezio, certamente si scioglierebbe. Ma l'inezia e la falsità di questo perverso sistema apparisce chiaramente dal vedere che in noi certamente, come di sopra abbiamo considerato, vi è una facoltà superiore che riflette, distingue e giudica sopra le idee che in noi si formano dalle impressioni esterne; le quali idee anche sono superiori a' sensi ed alla materia; ond'è che questa facoltà non è sensazione, ma è pura intelligenza; dal che si prova che l'anima è spirituale, e perciò ella opera con cognizione del bene e del male e con vera libertà, che poi la rende capace di merito e di demerito.


7. L'altro principio di Elvezio è che il piacere e l'interesse personale formano

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la morale dell'uomo. Ecco come egli parla: «Convien guastare con mano ardita l'incanto, cui è attaccata la possanza di cotesti genj malefici (intende i ministri della religione), e scoprire alle nazioni i veri principj della morale. Insegnar loro si dee (stiamo attenti ad apprendere questi gran documenti) che noi siamo insensibilmente rapiti verso il bene, apparente o reale, che il dolore e il piacere sono i soli motori dell'universo morale; e che il sentimento dell'amor di se stesso è la sola base sovra cui piantar si possano i fondamenti d'una morale vantaggiosa. I principj della religione intorno alla morale non posson convenire che ad un picciol numero di cristiani. Un filosofo che nei suoi scritti parla all'universo, dee dare alla virtù dei fondamenti sopra di cui le nazioni tutte possano lavorare, ed in conseguenza dee innalzarla sopra la base dell'interesse personale. Ad un tal principio fa d'uopo di tanto più strettamente attenersi, quanto che i motivi dell'interesse personale... bastano a formare uomini virtuosi1. Siegue poi a dire: I nomi di bene e di male creati sono originalmente per esprimere le sensazioni del piacere e del dolore fisico: ora queste sensazioni hanno eccitato nell'uomo l'amor dell'intelletto personale, e questo l'ha spinto ad unirsi con altri in società: ma perché poi in tal società sussistesse, eran necessarj i patti, de' quali dovea l'interesse essere il fondamento. Allora sono nate le azioni giuste o ingiuste, le quali prima non ci erano. Dunque la sensibilità fisica e l'interesse personale sono stati gli autori di ogni giustizia.» Così scrive nel disc. 3. cap. 4. Dunque tutto ciò che fomenta il piacere è onesto; e tutto ciò che fomenta l'interesse personale è giusto. Bella filosofia! Ma andiamo esaminando ad una ad una le proposizioni del riferito discorso, e vediamo quanto sono false e perniciose.


8. Dice per primo: Il piacere e il dolore fisico sono i soli motori dell'universo morale. Falso; perché nell'uomo oltre la parte fisica sensitiva, alla quale spetta il sentire il piacere e il dolore sensibile, vi è la parte ragionevole, con cui l'uomo conosce la verità delle cose nelle quali consiste il suo bene. Non già dunque il piacere e il dolore fisico sono i motori della morale, ma è la cognizione della verità, o sia del vero bene e del vero male.


9. Dice per secondo: I principj della religione intorno alla morale non posson convenire che ad un picciol numero di cristiani. Un filosofo che parla all'universo, dee dare alla virtù de' fondamenti, sovra cui tutte le nazioni possano egualmente battete. Suppone dunque Elvezio che la sola religion cristiana può vietare i piaceri disordinati; ma ciò è falso, perché la sola retta ragione anche è sufficiente a moderare l'uso dei piaceri che oltrepassano l'ordine della natura.


10. Dice per terzo: La sensibilità fisica e l'interesse personale sono stati gli autori d'ogni giustizia. Falso. La sola legge eterna di Dio, da cui deriva la legge naturale, è la regola della giustizia. La giustizia poi è una virtù che riguarda così il prossimo, come anche Dio e noi stessi; ond'ella ci obbliga di rendere a Dio l'onore e l'amor che si merita, al prossimo il diritto che gli spetta, ed in quanto a noi stessi ella ci vieta quel che la ragione non ci permette. Or, posto ciò, come mai la sensibilità fisica e l'interesse personale possono essere gli autori di ogni giustizia? Dica meglio Elvezio, se egli parla degli uomini, dica che la sensibilità e l'interesse personale sono gli autori nel mondo di ogni ingiustizia: se poi parla delle bestie, le quali altro non cercano che il proprio diletto, senza badare né a giustizia, né a ragione, per queste dice bene che la sensibilità e l'interesse proprio formano tutta la loro giustizia e morale.


11. Dice per quarto: Queste sensazioni del piacere e del dolore fisico hanno eccitato nell'uomo l'amor dell'interesse personale, e questo l'ha spinto ad unirsi

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1.

con altri in società; ma perché poi tal società sussistesse, erano necessarj i patti, il fondamento dei quali doveva essere l'interesse. Allora sono nate le azioni giuste e ingiuste, che prima non vi erano. Tutto falso; perché l'uomo non è stato già ordinato alla società dall'interesse, ma dalla natura, o per meglio dire da Dio, ch'è l'autor della natura; ed egli è stato, che, dovendo gli uomini moltiplicarsi e convivere in società, affinché tra loro si conservasse la pace, ha imposto a ciascuno di rendere al prossimo ciò ch'è suo, altrimenti la società non potrebbe sussistere. Dunque non è l'interesse personale l'autore della giustizia, ma la giustizia è quella che frena l'interesse personale, acciocché la società sussista.


12. In somma Elvezio col suo sistema abolisce ogni diritto di natura, volendo che tutto questo diritto consista nell'interesse o personale o della società. Per altro a questo falso e perniciosissimo principio, come ha ben dimostrato l'avvocato d. Damiano romano nella sua dotta dissertazione apostolica dell'esistenza del diritto della natura, hanno dato voga Ugone Grozio nel trattato del diritto della guerra e della pace e Samuele Pufendorfio nella sua opera del diritto della natura e delle genti, facendo consistere il principio della legge naturale nel bene della socialità. Ma ben dice il nominato avvocato che un tal principio invece di fondare il diritto della natura, più presto se non direttamente, almeno indirettamente lo distrugge; poiché Grozio tra le altre sue prove vi mette questa: fa egli un'ipotesi, e dice che se mai non vi fosse Dio, e non avesse egli proibito agli uomini per mezzo del lume della ragione il nuocersi ingiustamente fra di loro, ognuno potrebbe impunemente togliere al suo prossimo le robe, la fama e la vita; e così non potrebbe conservarsi più la società umana. Dal che sembra voler concludere che il diritto della natura dipende dal bene della società. Ma questa prova recata da Grozio del diritto di natura apre la via, almeno indirettamente, come dissi, all'ateismo; poiché i promotori di questo empio sistema, considerando l'orrore che l'ateismo apporta seco al comune degli uomini per la necessaria conseguenza che indurrebbe, cioè che tutti i delitti più enormi non sarebbero più malvagi, né meritevoli per sé di castigo, essendoché, tolto Dio di mezzo, non vi potrebbe essere niente più né di giusto, né d'ingiusto, la quale massima distruggerebbe ogni legge, e l'ordine di tutte le cose; ciò considerando, dice, han cercato di liberar l'ateismo da un tale orrore, con far credere che, quantunque non vi fosse Iddio, ben potrebbe esservi tra gli uomini giustizia ed ingiustizia, virtù e vizio: e così l'ipotesi di Grozio l'han fatta tesi. Ma tutto è falsissimo; perché se non vi fosse Dio, non vi sarebbe più obbligazione di abbracciare il bene e di fuggire il male; perché se non vi fosse Dio, non vi sarebbero né uomini, né lume di ragione, né virtù, né vizj. Si aggiunge che il diritto di natura non solo regola l'uomo nelle azioni verso del prossimo, ma ancora in quelle che riguardano Dio e se stesso; onde, se il diritto naturale dipendesse dal solo principio della socialità, non sarebbe già peccato il prendere il nome di Dio in vano, né la bestemmia, né l'idolatria, ed impunemente potrebbero uccidersi gli uomini che fossero inutili, e tanto più se fossero perniciosi alla repubblica.


13. Il Bayle vuol farci credere che molti atei, quantunque negassero Dio, han fatta vita onesta e virtuosa. Ma per prima è comune il sentimento de' dotti che, essendo così evidenti i contrassegni dell'esistenza di Dio, non può esservi nel mondo un vero ateo, il quale sia appieno persuaso che Iddio non vi sia. Ma, dato che vi fosse un tal ateo, il suo operare non potrebbe mai dirsi moralmente buono, perché tutta la bontà morale delle azioni umane dipende dall'uniformarsi alle leggi divine; onde per colui che credesse non esservi Dio, non vi sarebbero più leggi, né obbligazioni e per conseguenza neppure azioni

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moralmente oneste o viziose.


14. Il Pufendorfio poi si vale dello stesso principio di Grozio a provare il diritto di natura, ma sotto di un altro riflesso, e dice che il diritto naturale fu dato agli uomini da Dio per tenere a freno le diverse inclinazioni che hanno alcuni contrarie all'umana tranquillità. Ma ciò niente prova l'esistenza del diritto di natura, perché lo sconcerto delle diverse inclinazioni che posson disturbare la tranquillità della società umana, non fu già nell'uomo nel suo stato d'innocenza, giacché allora egli fu libero da ogni concupiscenza disordinata; all'incontro la legge naturale sin da quel primo stato fu manifestata all'uomo, e solamente per lo peccato di poi commesso egli si rendé proclive al male.


15. Del resto non v'ha dubbio che, volendo Iddio che il genere umano si moltiplicasse, e per conseguenza gli uomini vivessero in società fra di loro, ha costituite ben anche le leggi naturali, acciocché l'uomo potesse vivere in pace cogli altri. Ma il diritto di natura non solo tende a conservare il bene della società, ma anche a regolare l'uomo, come si è detto, in tutte le sue azioni così verso il prossimo, come verso Dio e verso se stesso.


16. Quale dunque è il vero principio, per cui si prova l'esistenza del diritto di natura? Egli si prova dal fine per cui da Dio è stato creato l'uomo. Iddio ha data all'uomo un'anima per sua natura immortale, mentre, essendo l'anima puro spirito, non ha parti soggette alla corruzione; essendo dunque l'anima immortale ed eterna, non potea darle Iddio per fine un bene temporale e caduco, quali sono i beni di questa terra, ma dovea darle un fine che parimente fosse eterno, qual'è l'eterna beatitudine. All'incontro, avendo Iddio dotato l'uomo di ragione e libertà, conveniva alla sua gloria che quest'uomo prima di conseguire un tal fine, l'onorasse con ubbidire alle sue leggi, che gli servissero di norma per regolare le sue azioni eleggendo il bene, e fuggendo il male; e queste leggi appunto sono quelle che vengono manifestate all'uomo per mezzo del lume della ragione, e nelle quali consiste il diritto della natura.


17. Ma ritorniamo al nostro Elvezio. Egli dice che la fisica sensibilità e l'interesse personale sono gli autori d'ogni giustizia. Ciò farebbe che fosse giusta ogni cosa che apporta all'uomo sensibil piacere, e che giova al suo proprio interesse. Una tale giustizia sarebbe contraria alla giustizia e contraria alla natura, ed invece di conservare distruggerebbe la società. Il dir poi che il piacere e l'interesse personale hanno spinto l'uomo a vivere in società e così si sono introdotti i patti, coi quali la società sussiste, ciò va ben detto, sempreché si osservino i patti e la giustizia ne' patti; ma, posto ciò, dobbiam dire che non dall'interesse personale, ma dall'osservanza della giustizia e dei patti si conserva la società. All'incontro se l'interesse personale fosse l'autore della giustizia, non vi sarebbe più giustizia nel mondo, perché ognuno attenderebbe a spogliare gli altri per vantaggiare il proprio interesse, e così resterebbe distrutta la società. Quella società, scrisse Cicerone, quae propter utilitatem constituitur (cioè per l'utilità comune), utilitate alia (cioè per l'utilità particolare) convellitur1. Sicché questi moderni filosofi, che scrivono per giovare alla società e al bene comune, sono della società e del bene comune i maggiori nemici; poiché tolgono di mezzo il diritto di natura ed ogni giustizia, preferendo a tutto il piacere e il proprio interesse.


18. Ma udiamo un'altra bella lode che dà Elvezio all'interesse proprio: L'interesse, dice, è l'unico giudice della probità e del merito degli uomini. Se si perde l'interesse di veduta, non vi è più alcuna idea pura della probità; tutta la morale è sottomessa alla legge dell'interesse, come tutta la fisica è sottomessa alla legge del moto2. In questa maniera, dice l'arcivescovo di Parigi nel

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suo Mandamento, non vi sarà più distinzione fondata sulla legge di Dio tra il giusto e l'ingiusto: non vi sarà più obbligazion naturale di praticare i doveri, e di evitare le falsità. Dice Elvezio che tutte le leggi dipendono dall'unione fatta nella società e dalla volontà dei primi che l'hanno formata. Dunque ripiglia l'arcivescovo, se alcuno commette qualche ingiustizia, sarà solamente soggetto alle pene imposte dai legislatori, ma non potrà aver alcun rimorso o timore del giudizio divino? In tal modo, dice, i motivi dell'onestà e della carità, secondo l'autore dello Spirito, non vagliono più ad intraprendere gli atti di virtù; e l'uomo non dee attendere ad altro che a vedere se nelle sue azioni vi trova l'interesse proprio o del pubblico. Se mai fosse vero che l'interesse è l'unico giudice della probità e del merito, non vi sarebbe più distinzione tra il bene ed il male. Un tal sistema, esclama l'arcivescovo, apre la porta a tutti i mali, mentre sopprime la voce della coscienza, e distrugge tutte le leggi divine ed umane. Quandoché è certo quel che dice s. Gio. Grisostomo, che i primi legislatori non per altro hanno stabilite le leggi, che per il lume della coscienza lor comunicato da Dio.


19. Ma dopo aver esaminati i riferiti due principali detestabili principj di Elvezio, veniamo ora ad osservare alcuni altri errori molto notabili sparsi nell'opera contro la religione, la libertà e la morale. Contro la religione, parlando egli della materia e della formazione di questo mondo, scrive così: «Iddio nell'universo fisico non ha posto che un solo principio. Egli ha detto alla materia: Io ti doto di forza. Ed ecco che tosto gli elementi sottomessi alle leggi del moto, ma erranti e confusi ne' deserti dello spazio, hanno formate mille unioni mostruose, mille caos diversi, finché si sono posti finalmente in equilibrio ed in quell'ordine fisico, in cui si suppone disposto al presente l'universo.» Ecco in poche parole molti errori. Per 1. con ciò l'autore adombra il sistema di Epicuro del mondo formato dal casuale accozzamento degli atomi. Per 2. ciò che dice è contro la rivelazione, la quale insegna che Dio con un fiat formò l'universo; ma Elvezio vuole che gli elementi, dopo mille unioni mostruose han formato il mondo. Per 3. , dicendo che Iddio ha detto alla materia: Io ti doto di forza, egli suppone, o almeno mette in dubbio che la materia non sia stata creata da Dio, ma sia eterna e da sé; mentre dice solo che Dio l'ha dotata di forza, ma non dice che l'ha creata. Per 4. dice che gli elementi sottomessi alle leggi del moto, dopo mille unioni mostruose, finalmente si son posti in equilibrio. Ma se gli elementi sono stati sottomessi alle leggi del moto, come poi han potuto formare mille unioni mostruose? Le mostruosità sono contro le leggi; poiché le leggi importano regola ed ordine. Per 5. come va che la materia mossa da Dio, da sé poi si è posta in equilibrio? Se ella non era da sé capace di muoversi, tanto meno potea da sé mettersi in equilibrio; mentre è più il mettersi in equilibrio, che il semplicemente muoversi. Dunque da Dio non è pervenuto che il semplice moto, e dalla materia il porsi in equilibrio?


20. Di più dice: Il caso regna in questo mondo più di quello che si pensa. Ciò è errore contro la provvidenza, della quale parlammo già nella seconda parte al capo XVII., ove dimostrammo che ogni cosa è disposta da Dio, perché in ogni cosa osservasi un grande ordine, che non può venire dal caso; e quelle stesse cose che a noi sembrano disordinate, quelle maggiormente conservano quest'ordine, secondo i retti giudizj divini che a noi sono occulti.


21. Dice di più: Non vi è evidenza naturale, ma tutto è probabilità. Dunque non è certo che vi sia Dio, che vi sieno le anime, che elle sieno spirituali, e che non sieno mortali, e che vi sia premio e castigo nella vita futura: ma tutte sono mere probabilità? Ma erra, perché tutte queste cose ben sono, anche

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precisa la fede, naturalmente evidenti, come abbiam dimostrato nella prima e seconda parte. Dice ancora: Come possiamo assicurarci che tutto l'universo non sia un puro fenomeno? Ecco un puro scetticismo, al quale con queste parole l'autore si riduce.


22. Di più dice: La speranza e il timore delle pene e de' piaceri temporali sono tanto proprie a formare gli uomini virtuosi, quanto le pene e i piaceri eterni. Ecco l'indifferenza che dimostra l'autore intorno alla religione. Si notino le parole: sono tanto proprie: dal che si vede che non solo parla della sperienza pratica di molti uomini perversi che temono più le pene temporali, che le eterne, ma parla della proprietà delle pene temporali, e le eguaglia alla proprietà delle pene eterne, come se le une e le altre fossero dello stesso peso. In ciò dimostra il poco conto che egli fa dell'eterno.


23. Di più, parlando singolarmente della religione, scrive così: Un istorico profondo (si noti profondo) dicea che se si mettesse in due coppe d'una bilancia il bene e il male che le religioni han fatto, il male prepondererebbe al bene. Ecco dunque secondo questa massima esser meglio che non vi sia religione, giacché fa più male che bene. Meglio avrebbe fatto questo profondo istorico ad esser veridico, e non esser tanto profondo; poiché il troppo profondarsi l'ha fatto cadere in un profondo d'empietà e falsità: mentre sappiamo dalle istorie che anche le false religioni han giovato a frenare i vizj de' popoli; ed i filosofi gentili, benché occultamente riprovassero le superstizioni e le favole idolatriche, pure diceano doversi quelle conservare, per tenere i popoli a freno.


24. Di più dice: Egli è utile di tutto pensare e tutto dire, ancorché si avanzino principj funesti alla religione, ai cittadini ed ai governanti. Ecco dunque con questa bella massima distrutta nel mondo la religione, la società e la pace pubblica. Egli poi vuol sanare la barbara proposizione fatta dall'istorico profondo con soggiungere: Cessano poi (i principj funesti alla religione ecc.) da che vien permesso di contraddirli. Ma non la sana, perché col solo permesso di contraddire quei principj funesti non si toglie il danno che cagiona il perverso principio che sia utile di tutto pensare e tutto dire. La massima per altro è uniforme al sistema di Elvezio, che il piacere e l'interesse proprio sono gli autori d'ogni giustizia e i giudici d'ogni probità e merito. Del resto l'autore secondo la ritrattazione da lui fatta non ha stimato utile di tutto pensare e tutto dire, ma l'ha riprovato e condannato, né si è quietato di animo colla sola contraddizione fatta al suo libro, ma, come dice, è rimasto rammaricato di averlo scritto, ed ha desiderato di vederlo soppresso per il danno che ha causato, o può seguire a causare.


25. Contro poi la libertà dell'uomo ha scritto così: «Sembra che Dio abbia detto all'uomo: io ti doto di sensibilità: per mezzo di essa, cieco strumento de' miei voleri, incapace di conoscere la profondità delle mie vedute, tu dei senza saperlo compiere i miei disegni. Io ti pongo sotto la guardia del piacere e del dolore; l'uno e l'altro veglieranno a' tuoi pensieri ed alle tue azioni; genereranno le tue passioni, ecciteranno le tue avversioni, le tue amicizie, le tue tenerezze, i tuoi furori; accenderanno i tuoi desiderj, i tuoi timori, le tue speranze; ti sveleranno delle verità, ti precipiteranno in errori; e dopo averti fatti partorire mille sconcerti e diversi sistemi di morale e di legislazione, ti scopriranno un giorno dei principj semplici, allo sviluppo de' quali è attaccato l'ordine ed il bene del mondo morale1».


26. Questi sentimenti di Elvezio son già conseguenze de' suoi due principj di sopra mentovati, cioè che in noi non v'è altro che sensibilità fisica, che ci rende simili ai bruti, operando per istinto necessario, come operano le bestie o i matti o i fanciulli non ancora giunti all'uso della ragione, contro de' quali (sono tutte sue parole) inetta cosa

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sarebbe l'adirarsi, essendo eglino più meritevoli di compassione, che di sdegno, come soggiunge appresso. E che il piacere e l'interesse personale (ch'è l'altro principio) formano la morale dell'uomo, secondo la quale egli dee operare. Ma riflettiamo specialmente alle prime parole del riferito passo, che sono: Sembra che Dio abbia detto all'uomo: Io ti doto della sensibilità; per mezzo di essa, cieco strumento de' miei voleri, incapace di conoscere la profondità delle mie vedute, tu dei, senza saperlo, compiere i miei disegni. Dunque Iddio non ha data all'uomo la ragione, ma la sola sensibilità, per mezzo di cui quanto opera l'uomo, lo fa, eseguendo i voleri di Dio, privo di libertà? Sicché per conseguenza quel che l'uomo fa contro la ragione, lo fa necessariamente, compiendo allora i disegni di Dio, il quale così vuole che faccia? Tra gli altri errori vi è qui l'eresia di Calvino, che Dio sia l'autore del peccato. Ma tutto è falso, perché l'uomo è dotato da Dio non solo di sensibilità come il bruto, ma anche di ragione, la quale, essendo superiore al senso, frena e modera il senso. Non è vero poi che l'uomo opera qual macchina, siccome lo descrive Elvezio, ma opera come agente libero con piena libertà di eleggere il bene o il male come vuole.


27. Inoltre dice in altro luogo, espressamente parlando contro la libertà: Se si desse libertà dell'anima, si darebbe effetto senza cagione e volontà senza motivo. Egli dunque vuol dire che la volontà siegue quel che le rappresenta l'intelletto; e da ciò ne ricava l'empia conseguenza, che l'uomo non ha libertà nel suo operare. Ma erra, perché l'uomo è stato dotato da Dio di ragione e di libertà: perché è dotato di ragione, la sua volontà seguita ciò che gli propone la ragione, o sia retta o sia erronea, di bene vero o apparente: ma perché poi la volontà è libera, ella seguita la ragione, non necessariamente, ma liberamente, e solo perché vuole seguirla: tanto è vero, che spesso la volontà lascia di seguire quel che le propone la retta ragione, e s'appiglia al peggio, come scrisse Ovidio: Video meliora, proboque, deteriora sequor etc. E così gli uomini peccano, e si fan rei dell'inferno, perché si abusano della loro libertà, volendo seguire quel che alla retta ragione si oppone.


28. Contro poi la morale, dice: Essendo l'uomo di sua natura solamente sensibile ai piaceri de' sensi, questi piaceri per conseguenza sono l'unico oggetto de' suoi desiderj. Dunque secondo Elvezio l'uomo solamente è sensibile a' piaceri de' sensi? Ed i piaceri sono l'unico oggetto de' suoi desiderj? Dunque l'uomo non è più che un bruto, mentre non ha altro che senso, né altro desiderio che de' piaceri sensuali, e per conseguenza non ha né spirito, né ragione? Ma riflette l'arcivescovo di Parigi che ciò non è giunto a dirlo neppure Epicuro, benché dicesse che l'uomo non è altro che materia. Poiché Epicuro medesimo disse che la felicità dell'uomo consiste nel vivere giusto ed onesto. Eccolo presso Cicerone, che scrive: Clamat Epicurus non posse iucunde vivi, nisi sapienter, honeste, iusteque vivatur1. Ma il nostro filosofo si oppone ad Epicuro, e vuole che la felicità dell'uomo consista nei piaceri de' sensi. Vera filosofia da bruto.


29. Di più dice in altro luogo: «La ragione ci dirige nelle azioni importanti della vita, io lo vedo: ma i dettagli di quella ci abbandonano a' proprj gusti e passioni. Chi consultasse tutto sopra la ragione, sarebbe continuamente occupato a calcolare ciò ch'egli dee fare, e non farebbe mai niente». Dunque i dettagli della ragione ci abbandonano a' proprj gusti e passioni? No; ciò corre secondo i principj di Elvezio, che il piacere e l'interesse proprio sono i motori della morale, gli autori d'ogni giustizia ed i giudici della probità e del merito. Ma secondo i principj della religione e della natura, la ragione non ci abbandona ai gusti ed alle passioni, ma ella ci detta di domarle quando conviene. Siegue a dire nello stesso

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luogo: Chi consultasse tutto sopra la ragione, sarebbe continuamente occupato a calcolare ciò che egli dee fare, e non farebbe mai niente. Ma la sperienza smentisce Elvezio: perché nel mondo vi son tanti uomini probi che non trovano questa impossibilità di ben operar supposta da Elvezio nel dover calcolare tutto ciò che fanno: eglino operano rettamente e liberamente, regolandosi sempre con quel che detta la ragione.


30. Trattando poi l'autore dell'educazione de' giovani e delle prime istruzioni che loro debbon darsi, egli trova gran vantaggi a non opporsi alle passioni di questa prima età. E chiama i pedanti e predicatori gente senza spirito, che raccomandano continuamente la moderazione de' desiderj. Dice inoltre che colui il quale avesse a vincere i suoi difetti per esser virtuoso, egli sarebbe necessariamente un uomo poco onesto. Ed in sequela di ciò loda i temerarj che nel mondo si sono segnalati in attentati enormi, come gente di spirito. In somma le massime di questo autore non sono che d'un incredulo, il quale vuol vedere sconvolte e distrutte tutte le regole dell'onestà e della religione, la quale non loda ma vitupera i viziosi, e, parlando specialmente de' giovani, gli esorta ad avvezzarsi ad osservar la divina legge sin di loro primi anni: Bonum est viro, cum portaverit iugum ab adolescentia sua1: ed all'incontro dice: Ossa eius implebuntur vitiis adolescentiae eius, et cum eo in pulvere dormient2, ammaestrandoci che quando un giovane si abbandona a' vizj, gli restano quelli intrinsecati quasi nell'ossa, talmente ch'egli se li porterà seco sino alla sepoltura.


31. Dice di più: Che importa al pubblico la probità d'un particolare? Questa probità non gli è di quasi niuna utilità. Dunque solamente i malvagi sono utili al pubblico? Ma qual comunità mai potrà esser buona ed utile, se i membri che la formano sono malvagi?


32. In conclusione l'autor dello Spirito può vantarsi di aver avuto lo spirito (come dissi da principio) di sollevarsi sopra tutti gli scrittori più empj, che sinora vi sono stati, antichi e moderni; mentr'egli ha cercato di riempire il suo libro delle massime più empie e perniciose che sconvolgono e distruggono la fede, la religione, l'onestà, la società, la ragione, e per così dire tutta l'umanità. È vero ch'egli parla spesso problematicamente, ma poi passa dal problema all'asserzione, spacciando i suoi errori, come massime da tenersi circa la credenza de' dogmi ed i costumi. Già questo libro, come avvisammo, è stato condannato in Francia ed in Roma. Si desidera dai buoni che sia specialmente condannato anche nel nostro regno dal nostro religiosissimo monarca regnante, affin di evitare il gran danno che può cagionare ne' giovani poco intesi di tali materie, o pure infermi di spirito che lo leggessero; giacché di questa infame opera più copie per nostra disgrazia in Napoli ne son capitate e sparse.

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2 Discorso I. al c. 1. 

1 Disc. I. c. 1. 

1 Disc. 2. c. 24. 

1 L. 1. de Leg. n. 15. 

2 Disc. 3. c. 4. 

1 Disc. 3. c. 9. 

1 De Finib. bon. et mal. l. 1. n. 18. 

1 Thren. 3. 27. 

2 Iob. 20. 11.